Cristiada. Il film e gli approfondimenti storici e teologici. Altri film sul tema, documentari, i beati, le foto e le canzoni
IN PREPARAZIONE ALLA FESTA DI CRISTO RE
https://vangelodelgiorno.blogspot.com/2014/11/cristiada-il-film-e-gli-approfondimenti.html
I martiri Anacleto González Flores e i 7 compagni,
come anche José Trinidad Rangel, Andrés Solá Molist, Leonardo Pérez,
Darío Acosta Zurita e José Sánchez del Río,
hanno affrontato il martirio per difendere la loro fede cristiana.
In questa solennità di Cristo Re dell'Universo,
che essi hanno invocato nel momento supremo di donare la loro vita,
essi sono per noi un esempio permanente e uno stimolo
a dare una testimonianza coerente della fede nella società attuale.
Benedetto XVI
CRISTIADA
(Sottotitolato e doppiato in spagnolo)
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E QUI ALTRI TRE FILM SUI CRISTEROS
(IN SPAGNOLO)
PADRE MIGUEL AUGUSTIN PRO
Il papà, che oltre ad essere un buon cristiano è anche ingegnere minerario, non lo alleva nella bambagia e fin da piccolo lo porta con sé a visitare le miniere, perché possa rendersi conto della dura vita di quei lavoratori. Così il bambino cresce affinando la sua sensibilità e con una sollecitudine particolare per i problemi sociali in genere che lo spinge ad entrare a 20 anni nella Compagnia di Gesù: perché da sacerdote potrà maggiormente essere vicino a chi è nel bisogno e predicare il vangelo di Cristo cercando di coniugare carità e giustizia. Nato nel 1891 a Guadalupe, terra di Maria, da novizio e da chierico studia e matura la sua vocazione – oltrechè in Messico – anche in Nicaragua, Spagna e Belgio e qui viene ordinato prete nel 1925. Ritorna nel suo Messico l’anno successivo, proprio nel bel mezzo della persecuzione che sta insanguinando la Chiesa. C’è tanto da fare per sostenere i cattolici perseguitati, aiutare i poveri, portare la sua assistenza a malati e moribondi. Lo fa con la sua carica di ottimismo e la sua vitalità ed anche con una buona dose di coraggio, ricorrendo a travestimenti più o meno seri che gli permettono di eludere i controlli della polizia e di svolgere il suo lavoro sacerdotale clandestino, celebrando in segreto l’Eucaristia e predicando di nascosto gli esercizi spirituali. Si calcola che in un giorno sia riuscito a distribuire anche 1500 comunioni. In compagnia della sua chitarra e facendosi aiutare dalle sue battute spiritose e dalla sua inimitabile mimica, cerca di sollevare il morale e di sostenere tutti quelli che incontra. Questo prete che sembra avere ottimismo da vendere, in realtà passa nel crogiolo della sofferenza e della depressione a causa della persecuzione, delle sofferenze che stanno patendo il suo popolo e la sua famiglia, dei problemi che gli sta dando la sua salute malferma. Il segreto per superare tutto questo e per essere di aiuto agli altri, nonostante tutto, lo trova nell’unione con Gesù, perché ha scoperto che non c’è “un mezzo più rapido ed efficace per vivere intensamente unito a Gesù che la santa messa”. Tenuto costantemente sotto controllo dalla polizia, viene alla fine arrestato con la falsa accusa di aver partecipato all’attentato contro un generale. Dopo un processo-farsa e in violazione dei più elementari diritti umani lo fucilano a Città del Messico il 23 novembre 1927: ha solo 36 anni di età e due di sacerdozio, ma così intenso e gioioso da valere una vita intera. Muore con il crocifisso in una mano e il rosario nell’altra, esclamando “Viva Cristo re”, tanto che ad un soldato del plotone di esecuzione, come al centurione ai piedi della croce, scappa di dire:” E’ così che muoiono i giusti”. Al suo funerale, sfidando la polizia e i divieti delle autorità, partecipano 20 mila persone, riconoscenti per quanto da lui ricevuto e certi che egli è un martire di Cristo. Dello stesso parere è anche la Chiesa, che per bocca di Giovanni Paolo II° il 25 settembre 1988 ha proclamato beato padre Michele Agostino Pro.
LOS ULTIMOS CRISTEROS (2012)
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Anno 1935, Messico. E’ scoppiata ormai da diverso tempo una nuova Cristiada (la cosiddetta Segunda) a causa della politica anti-cattolica del Presidente Làzaro Càrdenas, culminata nel progetto di educazione socialista che ha provocato insurrezioni sparse in diverse aree del paese. Questa pellicola messicana (2011) del regista Matìas Meyer, ambientata appunto durante la Segunda, tratta delle vicissitudini di un piccolo gruppo di cristeros dello stato di Jalisco, capitanati da un anziano comandante che non vuole deporre le armi nonostante sia consapevole di combattere una guerra persa.
Con questo film dal taglio introspettivo, dal retrogusto di western di un’altra epoca condito con una punta di malinconia e con una forte dose di realismo, il giovane regista Matìas Meyer (figlio dello storico studioso della Cristiada Jean Meyer) ci propone un tragico spaccato di storia del Messico pressoché sconosciuto al di fuori dei suoi patri confini. Liberamente tratto dal romanzo Rescoldo. Los últimos cristeros del figlio di un comandante cristero Antonio Estrada, questo lungometraggio della durata di circa un’ora e mezza è incentrato soprattutto sul vissuto interiore dei protagonisti (la loro eroica compostezza, i loro dubbi, la loro volontà di combattere nonostante tutto…) e risulta essere molto diverso come impostazione dal più noto film americano Cristiada, pur tutto sommato eguagliandolo in termini di godibilità della pellicola. D’altronde nel film del Meyer abbiamo la trasposizione su cellulosa di una guerra prevalentemente spirituale combattuta nell’interiorità dei singoli protagonisti, aspetto che conseguentemente lascia poco spazio ad epiche scene di battaglia.
Magistrali sono inoltre le inquadrature (da segnalare a riguardo l’ottimo uso dei primi piani) e le tonalità dei colori, entrambe evidentemente atte ad evidenziare le emozioni dei personaggi e ad aumentare quel senso di drammaticità spesso trasudante dai grinzosi volti degli anziani cristeros o da quelli segnati e logorati dalla guerra dei più giovani.
Pur ovviamente poco conosciuto, questo film ha avuto un riscontro positivo nel pubblico e nella critica, con un 67% di approvazione su Rotten Tomatoes e con diversi premiazioni ottenute in Messico e all’estero, tra le quali meritano di essere menzionati il Premio SIGNIS al festival di L’Havana del 2011 e il fatto di essere stato ritenuto il miglior film messicano dell’anno al festival del cinema di Riviera Maya del 2012.
SUCEDIO' EN JALISCO - LOS CRISTEROS
PER COMPRENDERE
"I CRISTEROS E LA CRISTIADA".
UNO STUDIO COMPLETO DA SCARICARE IN PDF QUI
Una nota di padre Fidel González MCCI, docente alla Pontificia Università Gregoriana
"La storia della Chiesa in Messico rappresenta un esempio di coraggio e resistenza, sottomessa a una violenta ostilità dal 1911 al 1940. Fu così aspra che Pio XI la paragonò a quella dei primi secoli cristiani. Il cattolicesimo messicano non fu reazionario nei confronti dei cambiamenti sociali. "I congressi" social-cattolici anteriori alla rivoluzioni, le numerose iniziative nel campo educativo, sociale e popolare, lo dimostrano ampiamente. Ma le forze liberali e massoniche trionfatrici nel 1917, rimasero nelle mani di uomini visceralmente nemici della Chiesa. Vollero cancellare per sempre l'uomo cattolico messicano. La spiegazione di una così forte intolleranza si deve ricercare nel carattere popolare del Cattolicesimo messicano, la cui diffusione fra la gente era così incomoda da dover essere soppressa con la forza. All'inizio, poiché era impossibile realizzarlo con le armi, si cercò di farlo con le leggi. Ma quando si dimostrarono inefficaci, si tornò ai plotoni di esecuzione. Nessuno dei Martiri fu sottomesso a un processo legale; nessuno fu condannato per crimini accertati dalla legge. Come nel caso di ogni persecuzione, il motivo della condanna fu la semplice appartenenza esplicitamente professata a Gesù Cristo, vivo oggi, confessato senza ambiguità con quel grido ripetuto mille volte da quei martiri prima di morire: Viva Cristo Re! Viva la Vergine di Guadalupe! Ai Martiri messicani si può applicare ciò che Sant'Efrem scriveva sui primi martiri: "Ecco la vita nelle ossa dei martiri: chi oserebbe dire che non sono vivi? Ecco i monumenti vivi, e chi ne può dubitare?" Ecco i monumenti vivi della presenza di Cristo, nei Martiri messicani, e nel "basso popolo cristiano", secondo l'espressione usata dai massoni e dai liberali riformisti di allora. Rimase fedele alla sua fede nonostante le ostilità della massoneria infiltrata nella borghesia economica e intellettuale "criolla", protagonista in parte dell'indipendenza e con frequenza protetta dai fratelli "del Nord" e dell'Europa. Lo studio attento dimostra il preciso progetto di smantellare le radici cattoliche e un dichiarato disprezzo non soltanto verso tutto ciò che era "spagnolo", ma anche verso tutto ciò che era "indio", nonostante l'apparente indigenismo di molti esponenti rivoluzionari. Molti sacerdoti sono morti mentre si recavano a celebrare la messa (nonostante la proibizione di farlo); alcuni muoiono addirittura con le specie consacrate in bocca, per difenderle dalla profanazione. I Martiri muoiono invocando la Vergine di Guadalupe. È anche la prova che Guadalupe non era un mito, né una fantasia religiosa scaturita da un sincretismo, ma un Evento che ha penetrato tutta la storia cattolica messicana e latinoamericana, come hanno detto i vescovi a Puebla nel 1989. Un altro aspetto dei Martiri è il loro impegno sociale. Li vediamo immersi in una grande attività nello sforzo di migliorare le condizioni della gente, per la giustizia sociale nei circoli operai, nella stampa, nella formazione di bambini e giovani. La vita non è separata dalla fede. I sacerdoti non rinunciano al loro ministero durante la persecuzione, e vivono nascosti, viaggiando di notte da rancho a rancho. Alcuni soldati si rifiutarono di sparare ai loro sacerdoti, e pagarono con la vita il loro gesto di gratitudine, di rispetto e di fede. Quei sacerdoti erano eroici nella fedeltà quotidiana al proprio sacerdozio, nelle circostanze difficili in cui si trovavano. Questi sono gli aspetti che metterei in evidenza come chiave di lettura della storia di un martirio, una delle storie più appassionanti e appassionate del 20° secolo".
DOCUMENTARI
"CRISTIADA":CRITICA E INTERVISTE
Cristiada, apocalisse laicista
Quando è uscito nel 2012 è stato salutato come la più impegnativa produzione nella storia del cinema messicano. È stato promosso dalla critica liberal del New York Times a da Phil Boatwright, influente critico cinematografico del mondo evangelicalstatunitense, che la ho definito «un profondo omaggio alla libertà religiosa», un’opera che rimanda a lavori importanti del passato come El Cid di Anthony Mann e Un uomo per tutte le stagioni di Fred Zinnemann. In Francia, dove è arrivato in sordina nelle sale a fine maggio, in poco più di due mesi ha raccolto ottantamila spettatori. Parliamo diCristiada, il film prodotto dal messicano Pablo José Barroso (munifico imprenditore convertito alla causa dell’evangelizzazione tramite il cinema) e dedicato a una vicenda tragica ed eroica, cruciale nella storia del Messico moderno: la persecuzione dei cattolici ad opera del regime liberal-massonico negli anni ’20, e la conseguente rivolta interclassista di migliaia di messicani bollati come cristeros.
Cristiada ha l’ambizione di riportare in primo piano una pagina di storia – storia di fede, oppressione e martirio –- ancora poco nota al grande pubblico e di farlo con un cast di primo livello. Alla regia Dean Wright, talento degli effetti speciali, noto soprattutto per il suo lavoro nel secondo e terzo episodio della trilogia del Signore degli anelli, fra gli attori Andy García nei panni del generale cristero Enrique Gorostieta, Eduardo Verástegui nel ruolo di Anacleto González Flores, l’avvocato difensore dei diritti civili dei cattolici, torturato e ucciso dagli uomini di Calles e beatificato nel 2005.
Poi Eva Longoria, Peter O’Toole, Oscar Isaac, Catalina Sandino. Con la colonna sonora affidata a James Horner (Braveheart, Titanic e Avatar).
La “Cristiada” ha il suo antefatto nelle leggi anticlericali varate a partire dal 1914 e la sua causa scatenante nell’elezione a presidente del Messico nel 1924 di Plutarco Elías Calles, che – come scrive Jean Meyer, il massimo storico della guerra cristera – è «animato da un odio mortale per la Chiesa» e cerca di combatterla con determinazione e piglio “apocalittici”. La situazione precipita e il popolo, religiosissimo, scende nelle piazze. Poi di fronte alla repressione, alle fucilazioni e alle impiccagioni dei renitenti al programma di rieducazione laicista, molti prendono le armi e ingaggiano uno scontro con le truppe federali che si protrae per tre anni. L’esercito cristero, che vede fianco a fianco proprietari terrieri e campesinos, arriva vicino alla vittoria, ma giunge da Roma l’ordine di deporre le armi.
La decisione getta le basi per un lento e difficile recupero del rapporto con le autorità statali, ma viene vissuta dai cristeros come un’ingiustizia accettata solo per obbedienza al Papa. Lascia infatti mano libera ai federali per un regolamento di conti, villaggio per villaggio, che sarà un bagno di sangue e continuerà fino alla fine degli anni ’30. Il film presenta quell’epopea attraverso vari personaggi, ma il perno narrativo è l’incrociarsi del generale cristero Gorostieta (Andy García), che accetta il comando della rivolta anche se lontano dalla fede e dalla Chiesa (saranno i fatti a spingerlo alla conversione) e un ragazzo, José Sánchez del Rio, che si unisce alla lotta per la sete di giustizia e per l’amore a Cristo Re: verrà ucciso dopo essere stato seviziato per non aver rinnegato la fede, a soli quindici anni (è stato beatificato da Benedetto XVI nel 2005).
«Le figure sono adattate alle esigenze del copione con alcune libertà – spiega lo storico e saggista Mario Iannaccone, profondo conoscitore dei cristeros, su cui ha firmato per Lindau la recente monografia Cristiada. L’epopea dei Cristeros in Messico –, il film concede molto alla battaglia cappa e spada, più che alla puntuale ricostruzione degli avvenimenti, ma nel complesso rende bene il clima di quegli anni. Si coglie, in particolare, il fervore di quei contadini che combattevano non per fanatismo ideologico, bensì per non vedere profanate le loro chiese e per avere i sacramenti: non volevano morire senza, non volevano che i loro bambini nascessero senza.
Questo fu ciò che li spinse alla battaglia. Soprattutto, va sottolineato, furono aggrediti in modo brutale. Fu una guerra di difesa, non certo una jihad cristiana, come qualcuno ha tentato di farla passare. L’esercito poteva attirare con la paga che offriva, ma la forza della causa cristera portò a continue defezioni. Dal punto di vista delle violenza anti-cristiana fu anche una prova generale di quello che sarebbe successo in Spagna dieci anni dopo: stime sul numero dei morti è difficile farne, perché il Messico era un Paese in gran parte selvaggio e vi furono omicidi che vennero compiuti dai federali a guerra finita e che furono fatti passare per rapine o altri atti di criminalità comune; una cifra che viene fatta è di ottantamila morti su circa sette milioni di abitanti, ma probabilmente furono molti di più».
Intervista esclusiva al protagonista Andy Garcia: «Io, un cattolico a Hollywood»
Sposato, quattro figli, esule dalla Cuba comunista di Castro, l’attore spiega perché ha deciso di recitare in un film “scomodo” come Cristiada. Intervista esclusiva in occasione della prima italiana.
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Sposato dal 1982, quattro figli, esule cubano, critico del regime comunista instaurato da Fidel Castro. E cattolico. Quello di Andy Garcia non è il prototipo di curriculum che va forte a Hollywood, ma l’attore di 48 anni non ha mai avuto bisogno di venire a patti con le sue convinzioni per avere successo. Più che la recitazione, è la carriera sportiva che attirava Garcia da giovane e la pallacanestro è lo strumento che gli ha permesso di superare le difficoltà di ambientamento. Sbarcato a Miami a cinque anni nel 1961, senza sapere una parola di inglese, a scuola nessuno gli ha mai reso la vita facile. Il basket sarebbe potuto diventare il suo lavoro, se l’epatite e la mononucleosi non avessero stroncato la sua carriera alla fine delle scuole superiori. Senza quella malattia, però, Garcia non avrebbe mai cominciato a recitare e due registi come Brian De Palma e Francis Ford Coppola non lo avrebbero mai scritturato per una parte ne Gli intoccabili e Il padrino – Parte III.
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Avventuratosi a Los Angeles nel 1979 per intraprendere la carriera di attore, Garcia ha subito dimostrato di avere un’identità molto forte. Il fascino era uno dei suoi punti di forza ma non amava spogliarsi. Così, quando durante uno dei suoi primi provini gli è stato chiesto di togliersi la camicia, se ne è andato sbattendo la porta senza pensarci troppo. La faccia da italo-americano e la voce profonda lo hanno reso perfetto per impersonare trafficanti di eroina, poliziotti e mafiosi. Ma anche all’apice del successo dopo la candidatura all’Oscar e l’azzeccata interpretazione in Ocean’s Eleven, non ha mai dimenticato le sue origini. «Io sono un esule cubano – dichiara in un’intervista esclusiva a Tempi in occasione della prima italiana del film Cristiada (For Greater Glory) – e sono cattolico. Queste cose fanno parte della mia vita e per me non è difficile viverle a Hollywood come in un qualunque altro posto».
Garcia non è di molte parole ma per lui parlano i fatti: quando avrebbe potuto consacrarsi con pellicole semplici e disimpegnate, ha deciso nel 2005 di mettersi dietro alla cinepresa per girare il suo primo lungometraggio, The Lost City, ambientato nella sua città natale, L’Avana, durante la rivoluzione castrista. Nel 2012, «affascinato da un momento della storia messicana di cui conoscevo molto poco», ha accettato di recitare in Cristiada, vestendo i panni del generale Enrique Gorostieta Velarde, il militare ateo che ha guidato la rivolta armata dei cristeros contro la persecuzione religiosa del governo messicano negli anni Venti.
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Andy Garcia, il generale Enrique Gorostieta è un personaggio controverso e impegnativo. Perché ha accettato di interpretarlo?
Lo sviluppo emotivo di Gorostieta era davvero attraente per me come attore. Lui non è un uomo religioso ma crede nel diritto alla libertà religiosa, un diritto che tutto il mondo dovrebbe avere. Ci sono due motivi per cui decide di partecipare a una battaglia di cui inizialmente non condivide gli ideali: in parte lo fa su incoraggiamento della moglie, che era molto devota, e in parte per sé.
Prima di entrare in guerra dalla parte dei cristeros, Gorostieta confida a un amico in divisa: «Un uomo che vive di ricordi è già morto».
È esattamente questo. Il mio personaggio è un militare e accettare la proposta dei cristeros gli conviene perché è un modo per tornare sul campo di battaglia e rientrare in un mondo che si era lasciato alle spalle. Gorostieta aveva infatti una storia personale di grande successo, soprattutto nella guerra contro il politico e rivoluzionario Zapata.
Cosa la colpisce di questo personaggio?
Mi piace perché mentre combatte la sua guerra per la libertà religiosa, si lascia ispirare e impressionare dalla passione dei cristeros, che sono veri credenti. La sua vita viene cambiata soprattutto da un bambino di 14 anni, José (beatificato da Benedetto XVI nel 2005, ndr), che sacrifica la vita per la fede e che gli fa sperimentare una specie di epifania religiosa durante il corso del film.
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La storia di Cristiada è vera ma è praticamente sconosciuta a tutti, persino in Messico.
Abbiamo dovuto fare ricerche molto impegnative per realizzare questo film. Abbiamo capito che persino in Messico questa parte di storia è ancora un tabù e pochissimi la conoscono. Il produttore José Pablo Barroso è messicano e credo che abbia deciso di raccontarla proprio per renderla nota e per ricordare quelle persone che hanno dato la propria vita per la libertà (vedi anche l’intervista dello stesso Barroso a Tempi, ndr).
La persecuzione dei cattolici non è un tema molto in voga. Eppure dovunque sia stato distribuito il film ha riscosso un grande successo. Come mai?
In Messico il film è stato un successo strepitoso e ha sempre fatto registrare il tutto esaurito. Negli altri paesi forse è stato un po’ boicottato ma è andato ugualmente benissimo e non mi sorprende. Il film ha una struttura classica e ricalca quella di molte storie epiche dove viene inscenata la lotta per la libertà. I valori e le immagini della pellicola sono molto forti e credo che la gente sia sempre curiosa verso i drammi della storia. Questo film, inoltre, è stato girato in modo eccellente, è godibile da vedere, è interpretato da ottimi attori. Insomma, penso che quando si realizza un buon film la gente accorre sempre.
Che effetto le ha fatto “guidare” un esercito pronto a dare la vita per la libertà religiosa?
La storia ci ha mostrato tante volte delle persone disposte a sacrificare tutto. In questo caso si parla di libertà religiosa, che è un valore ancora più grande degli altri perché quando non c’è la libertà religiosa non può esistere nessun altro tipo di libertà. A volte però il prezzo da pagare è drastico. Questo è il tema del film.
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Cristiada uscirà in Italia il 15 ottobre, in un momento in cui la persecuzione religiosa dei cristiani è un tema di grande attualità.
Questo film è universale e anche se non era il suo obiettivo specifico, illumina tutti i casi attuali di persecuzione. Parla del Messico ma battersi per i propri diritti è un concetto valido a ogni latitudine. La libertà religiosa, come quella di parola, è un diritto fondamentale e noi siamo molto fortunati a poterne godere. Oggi non dovremmo prendere con leggerezza queste libertà perché ci sono molti paesi al mondo dove alla gente sono state portate via.
Parla della sua terra d’origine?
Io vengo da Cuba e la mia è una famiglia di esuli. Quando penso al mio paese, che vive sotto un regime e non gode di nessuna libertà, provo un grande dolore e un’immensa tristezza. Nel mio cuore c’è sempre una ferita, il mio legame spirituale con Cuba non potrà mai spezzarsi perché conosco bene le sofferenze che la mia gente patisce da cinquant’anni. Spero e prego che presto o tardi possa tornare libera.
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È difficile scegliere di recitare in un film come Cristiada? Oggi i cattolici non sono molto ben visti: non si rischia di essere etichettati a Hollywood?
Per me non è affatto complicato vivere rimanendo me stesso. Ho avuto una vita benedetta e non la trovo per niente difficile. Soprattutto quando penso alla gente della mia terra d’origine, mi rendo conto che la mia vita è un dono e ne sono cosciente in ogni momento. Essere un esule fa parte della mia esistenza, così come il cattolicesimo, la religione nella quale sono stato cresciuto. E per me non c’è niente di difficile nell’essere cattolico a Hollywood, come in qualsiasi altra parte del mondo. Questo almeno è quello che penso.
@LeoneGrotti
Tempi.it
L’aurora della libertà: Cristiada
Ci sono scene che, indelebili, segnano una generazione di uomini. Qualcuno ricorda meglio di me un uomo a Piazza Tien Ammen che, senza paura, fronteggia un carro armato e gli blocca la strada.
Qualcun altro forse avrà ancora in mente i terribili attentati dell’undici settembre. La corsa coraggiosa di quei vigili del fuoco che si precipitarono fin sotto le Torri Gemelle in fiamme, nel disperato tentativo di salvare vite di innocenti persone che si erano recate in ufficio.
Anche io ho visto una scena che non dimenticherò. Un piccolo bambino messicano rifiuta di abiurare la propria fede. Per questo viene appeso ad un albero. Poi torturato crudelmente. Quindi, di fronte ai suoi genitori, pugnalato e infine brutalmente ucciso con un colpo di fucile.
La scena è la ricostruzione del vero martirio del piccolo Josè Del Rio, nel 2005 proclamato beato. La scena è ricostruita con veridicità e commozione nel film Cristiada.
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Il film concentra la sua attenzione sulle truppe dei Cristeros, radunatesi dopo le dittatoriali leggi anticattoliche (1926) del primo ministro massone Plutarco Elias Calles. I fedeli messicani, visto il divieto persino del culto privato, defraudati di chiese e persino di sacerdoti, inizialmente mettono in atto una serie di reazioni pacifiche. Tra queste spiccano varie proposte di abrogazione delle leggi anti culto e un boicottaggio economico. Calles le ignora o persino le ostacola con repressioni sanguinolente. Così al grido di “Viva el Cristo Rey” (da cui il nome Cristeros) i fedeli cominciano la resistenza armata capitanati dal generale Gorostieta Velarde (A. Garcia) che però si professa ateo. È una guerra sanguinosa che miete un numero spropositato di vittime, ma i cattolici messicani non si arrendono, fino al riottenimento della libertà di culto.
Il film non è un b–movie come si potrebbe troppo facilmente evincere dal fatto che il mercato cinematografico internazionale lo ha velocemente gettato nel dimenticatoio. Tutt’altro. Basti pensare che il protagonista principale è interpretato da un indomito e carismatico Andy Garcia. Nel cast sono presenti nomi d’eccezione: uno su tutti è Peter O’ Toole, nei panni di un sacerdote irlandese martire, padre Christoper. Segnaliamo anche lo splendido montaggio e la fotografia. La colonna sonora è curata da James Horner (già premio oscar per le musiche di Titanic) e accompagna splendidamente le scene di guerra e di dialogo che si alternano. C’è qualche scena di sparatoria che molto amabilmente ricorda gli spaghetti western secondo il modello di Sergio Leone. Ciò rende ancora più amabile la sceneggiatura e la scelta delle inquadrature.
Il generale Gorostieta si definiva ateo. Pur tuttavia combatté e perse la vita per la libertà di culto, che in primis colpiva anche la sua famiglia. Molto spesso all’interno del film Gorostieta guarda con sguardo d’amore le foto della moglie e delle due figlie. Questo deve lasciarci pensare.
Agli inizi del secolo scorso c’è stato chi ha combattuto per la libertà di poter esprimere le proprie idee religiose. C’è stata una guerra Cristera. Prima ancora, ricordiamo le sanguinose rivolte della Vandea antigiacobina, nel pieno della rivoluzione francese. La storia dei cattolici messicani ci aiuta a ricordare che la libertà di culto tuttoggi non è rispettata. È, in alcuni stati del mondo, in pericolo. Non smettiamo mai di tenere attiva la coscienza. La storia della Cristiada non va dimenticata. Né in America Latina, né in nessun altro luogo del mondo. Non cadiamo nella tentazione di perdere la memoria. Tentazione molto vicina a noi: nel continente sudamericano la pellicola ha spopolato, mentre è stata dimenticata in Europa. Basti pensare che il film è uscito nel 2012 e solo dopo due anni è finalmente arrivato in Italia.
Non smettiamo mai di ricordare che la libertà di culto è espressione del foro interno. È espressione della persona. Non possiamo e non dobbiamo estirparla in nessun modo.
La libertà di culto è espressione stessa dell’uomo che risponde alle domande filosofiche per eccellenza. Dell’uomo che trova risposta alle domande di senso. “Chi sono? Cosa posso fare? In cosa mi è lecito sperare?”
Le risposte vengono quando la domanda e la pratica di fede è possibile. Non buttiamo via la ricerca su Dio, perché sarebbe buttare via prima di tutto l’uomo.
Gesù dolce, Gesù amore
Fr. Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.
LA STORIA
Lo sterminio dei Cristeros
Antonio GASPARI
tratto da: Avvenire, 17.2.2000.
La persecuzione dei credenti in Messico e la protesta armata contro il governo negli anni Venti.
Nei manuali storici così come nei dizionari enciclopedici italiani la storia della persecuzione religiosa che la Chiesa cattolica ha subito in Messico dalla metà degli anni ‘20 fino al 1930 è sconosciuta. I fatti accaduti in quel periodo della storia sembrano inesistenti. E quando si fa cenno alla guerra che si scatenò tra il presidente, generale Plutarco Elias Calles, e le formazioni irregolari dei contadini, si tende ad identificare la Chiesa con il movimento di guerriglia armata dei Cristeros. In realtà la gerarchia cattolica, anche quando i prelati e sacerdoti erano d’accordo a resistere alle leggi inique che erano state varate contro la Chiesa, ordinò di astenersi dalla difesa armata. Nonostante l’atteggiamento generalmente pacifico la Chiesa subì gravi perdite, centinaia di sacerdoti vennero uccisi, il 90% dei parroci fu costretto ad abbandonare le parrocchie per nascondersi, migliaia di cattolici trovarono la morte.
Scrisse in una lettera pastorale datata 6 marzo 1926, Josè Manriquez e Zárate, primo vescovo di Huejutla: “L’intenzione di Calles è di porre fine, una volta per tutte, alla religione cattolica in Messico. Il giacobinismo messicano ha decretato la morte della Chiesa cattolica nel nostro paese, lo sradicamento dalla società messicana e se fosse possibile, del pensiero cattolico”.
In ricordo di queste vittime il 22 novembre del 1992 la Chiesa ha beatificato un primo gruppo di 25 martiri messicani, 22 sacerdoti e tre laici dell’Azione Cattolica. Per fornire un contributo alla ricerca storica e soprattutto per ricordare il sacrificio di quei martiri l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” ha organizzato per oggi a Roma un convegno dal titolo “Persecuzione religiosa in Messico”. Tra i relatori vi sarà anche il professor Jean Meyer, considerato il maggior esperto mondiale sul tema. “Lo scoppio della crisi - dice Mayer in un’intervista al nostro giornale - avvenne quando il quotidiano ‘El Universal’ riportò le dichiarazioni dell’arcivescovo di Città del Messico Josè Mora y del Rio secondo cui si censuravano gli articoli 2, 5, 7 e 30 della Costituzione. L’intervista fu l’occasione per giustificare la chiusura della scuole cattoliche e dei conventi, l’espulsione dei sacerdoti stranieri e la limitazione del numero dei sacerdoti”.
La cosiddetta legge Calles divenne con il nome di "articolo 130" parte della Costituzione messicana. Essa prevedeva pesanti sanzioni a carico di coloro che avessero infranto quegli articoli della Costituzione che colpivano direttamente la Chiesa, alla quale veniva definitivamente impedito di esercitare qualsiasi attività senza il controllo diretto delle autorità civili. Nonostante l’esitazione di parte del governo e i tentativi di mediazione dei vescovi, Calles lanciò un ultimatum, affermando che il 31 di luglio 1926 la legge sarebbe entrata in vigore “costi quel che costi”.
Secondo la relazione fatta dal diplomatico francese Ernest Lagarde, Calles affrontava la questione religiosa con uno spirito apocalittico. A suo modo di vedere non si trattava di un conflitto locale tra la Chiesa e lo Stato, ma una lotta senza quartiere tra l’idea religiosa e quella laica, tra la reazione ed il progresso, tra la luce e le tenebre. Per questo motivo non ci doveva essere concessione alcuna per gli avversari, la legge considerava il sacerdozio come una professione il cui esercizio era soggetto a regolamentazione perché in realtà era immorale e nefasta.
Meyer precisa che “in questo contesto la battaglia contro il clericalismo era decisiva per Calles. I suoi seguaci erano fortemente nazionalisti. Essi erano convinti che il clero rappresentava la più grande minaccia all’indipendenza messicana perché i cattolici in quanto legati al Papa erano a servizio di una potenza straniera. Lo slogan "Fuori gli stranieri, il Messico ai messicani" era rivolto soprattutto ai cattolici. I callisti parlavano di un "complotto clericale" antirivoluzionario che avrebbe voluto vedere la bandiera del Vaticano sventolare sopra quella messicana”.
“In realtà -ci dice ancora Meyer- il gruppo degli anticlericali era una minoranza, che riuscì a prendere le leve del potere in un momento in cui lo Stato sembrava vulnerabile e in fase di mutazione. Così l’anticlericalismo, da convinzione personale divenne politica militante”.
I governativi più moderati con a capo Alvaro Obregón, presidente del Messico tra il 1920 ed il 1924, rieletto nel 1928, ma ucciso in un attentato dopo pochi giorni, sostenevano che Calles si era inventato un conflitto con la Chiesa come pretesto per dominare il popolo. Secondo costoro la legge Calles equivaleva ad uno schiaffo alla Chiesa e questo era pericoloso perché i vescovi avrebbero potuto lanciare una mobilitazione denunciando l’ingiustizia della legge, incitare alla resistenza e giustificare la ribellione. Una valutazione, quella dei moderati, condivisa anche dalla Liga Nacional Campesina che nel suo congresso del novembre del 1926 negò l’appoggio al governo. “Sia tra i moderati che nel popolo -dice Meyer- era chiaro che la legge Calles era dettata dall’ira e dalla volontà di rappresaglia per tener la Chiesa schiava di uno Stato tirannico”.
Nonostante questa resistenza interna, a partire da luglio i cattolici, ed i vescovi in particolare, dovettero ricorrere a tutti gli strumenti legali contro la riforma della Costituzione per difendersi da una aggressione che stava già facendo le prime vittime. Durante l’inverno del 1926 il popolo cominciò ad occupare la scena mentre i vescovi e la Santa Sede provavano a trattare con il governo. I prelati sempre più preoccupati per come si stava evolvendo la situazione accettarono i buoni uffici degli amici cattolici di Calles, tra cui il banchiere Augustin Legorreta, direttore del Banco Nacional de Mexico, monsignor Sanz di Samper maggiordomo del Papa, il procuratore di Giustizia Romero Ortega, e Eduardo Mestre presidente dell’Assistenza pubblica. Ma anche questa iniziativa fallì per l’intransigenza di Calles.
“I vescovi -afferma Meyer- cercarono in tutti i modi di trovare una soluzione pacifica. In qualità di cittadini messicani, il 7 di settembre presentarono una petizione al Congresso per riformare la legge Calles. Il 22 di settembre ci fu la votazione ma la petizione fu respinta per 160 voti contro uno con il pretesto che non avendo riconosciuto la Costituzione i vescovi avevano perso la qualifica di cittadini messicani e quindi la petizione non era valida. Nella risposta del Congresso è scritto che "la petizione di riforma si respinge perché inaccettabile". Da parte sua la «Liga defensora de la libertad religiosa», un movimento di laici che aveva promosso il boicottaggio economico del governo Calles, decise di fare un ultimo sforzo che era quello di raccogliere le firme per sollecitare un referendum per la riforma costituzionale. Vennero raccolte circa due milioni di firme in un paese con meno di 15 milioni di abitanti. Ma il tentativo fu vano perché lo scontro degenerò in drammaticamente in conflitto. Furono tre anni di guerra civile”.
“Paradossalmente -conclude Meyer- gli accordi che vennero firmati nel giugno del 1929 furono fatti sulla medesima base di quelli proposti dai vescovi nell’agosto del 1926. Alla fine la ragione aveva trionfato sugli imperativi categorici, ma quanto sangue era stato versato”.
Una nota tratta dal libro "I Santi Militari" di Rino Cammileri
"Tra il 1915 e il 1929 le condizioni della Chiesa in Messico furono terribili. Una minoranza liberal-massonica sostenuta dagli Stati Uniti aveva preso il potere e inaugurato una politica ferocemente anticlericale. La Costituzione del 1917 (tuttora valida) era dichiaratamente antireligiosa e diversi sacerdoti vennero uccisi in odio alla fede (la Chiesa ha dichiarato recentemente il primo Beato della persecuzione, il gesuita padre Humberto Pro). Ancora oggi in Messico è vietato l’abito ecclesiatico in pubblico e il Papa è stato accolto come “signor Woytila”.
Il governo, sulla scia della rivoluzione sovietica, aveva avviato il «socialismo» nelle campagne e svenduto le poche industrie del Paese agli americani. Il cattolicesimo era fuorilegge e bande di desfanatizadores percorrevano il territorio per assicurarsi che gli ordini fossero eseguiti. Chiese profanate, ateismo insegnato obbligatoriamente a scuola, gente fucilata perché trovata con la medaglietta della Madonna di Guadalupe addosso.
Dapprima i cattolici si organizzarono in associazioni che boicottavano tutti i prodotti dello Stato, smettendo perfino di prendere il treno e di fumare. Queste misure, tuttavia, provocarono l’appoggio degli americani, lesi nei loro interessi economici, ai federali. Il presidente Plutarco Elias Calles (fondatore del Partito Rivoluzionario Istituzionale, ancora oggi al potere) rispose con una recrudescenza da persecuzioni.
Pio XI nel 1926 protestò fermamente con l’enciclica “Iniquis afflictisque” e i vescovi del Messico decisero di sospendere il culto pubblico. Ma quindici milioni di messicani si precipitarono a tenere le chiese aperte, in lunghissime code ai santuari, sfidando i governativi alla luce del sole.
Dopo una nuova ondata di fucilazioni il popolo insorse. Armati di machete, di vecchi fucili da caccia e soprattutto di armi prese al nemico, i Cristeros al canto del “Christus vincit” si batterono per quattro anni contro l’esercito regolare, che andava all’assalto spiegando un vessillo nero con teschio e tibie, urlando “Viva el demonio!”, e riuscirono in breve tempo a controllare quasi tutto il Paese.
I governativi incendiavano i villaggi, violentavano le donne (specialmente quelle giovanissime delle Brigate Femminili Santa Giovanna D’Arco, che assicuravano i servizi logistici agli insorti), torturavano e impiccavano bambini, fucilavano gli ostaggi davanti ai familiari obbligati ad assistere, dopo aver tagliato loro la lingua per impedire che gridassero “Viva Cristo Rey!”.
I ribelli, tutti del popolo (i ceti superiori rifiutarono perfino di contribuire finanziariamente), combattevano con le armi che riuscivano a prendere, non imponevano alcuna requisizione e liberavano tutti i prigionieri.
Nel 1929, con la mediazione degli USA, la Chiesa stipulò un modus vivendi col Messico e i Cristeros, all’ordine di Roma, si arresero. Era stata una vera epopea: banditi da strada si convertivano e si univano agli insorti, imitati da decine di migliaia di disertori dell’esercito; un generale massone passò con i Cristeros e ne divenne comandante in capo, finendo ucciso a soli trentadue anni. Cristeros era un insulto, ma il nome fu adottato con orgoglio da quegli umili campesinos che andavano a morire sotto la bandiera che recava il Sacro Cuore e la Vergine di Guadalupe.
I patti non vennero rispettati dal governo, che si diede subito a feroci rappresaglie: cadaveri di preti crocifissi e di suore violentate si vedevano un po’ dovunque, tutti i combattenti arresisi furono passati per le armi e la vendetta durò ancora per anni.
Roma aveva chiesto l’amnistia e i vescovi locali avevano minacciato di scomunica chi non avesse deposto le armi. Ma l’amnistia non venne mai e perfino quelli che erano riusciti a fuggire in America furono riconsegnati ai federali e fucilati. Ancora una volta il papa protestò vanamente. Non gli rimase che ripetere la concessione ai caduti dell’indulgenza plenaria in “articulo mortis”, come già aveva fatto nel 1927."
“Cristiada”. La vera storia della resistenza cattolica alla crociata dei massoni per scristianizzare il Messico
Mario Arturo Iannaccone racconta in un saggio pubblicato da Lindau l’insurrezione popolare dei cattolici messicani contro il governo anti-cristiano di Calles negli anni ’20
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Scritto da Mario Arturo Iannaccone, Cristiada. L’epopea dei Cristeros in Messico (Lindau) è un saggio sull’insurrezione popolare dei cattolici messicani contro il governo anti-cristiano nella seconda metà degli anni ’20.
CATTOLICI IN MESSICO. L’autore spiega come «il fermento cattolico» in Messico, agli inizi del ‘900, avesse iniziato a preoccupare «non poco liberali, radicali, socialisti e massoni». Fu per contrastare ascesa e rivendicazioni di un temibile concorrente politico, che i governi anticlericali messicani che si succedettero negli anni ‘20 iniziarono a varare leggi per impedire alla Chiesa di avere un peso nella vita politica del paese. Gli “uomini di Sonora”, che allora controllavano il Messico, erano preoccupati dall’ascendente della Chiesa sul popolo. Affrontando le emergenze del paese, «degli agrari, dei nativi, dei lavoratori sottopagati, del lavoro minorile e femminile» e appoggiando riforme economiche fondate su «dottrina sociale e cattolicesimo tedesco», la Chiesa sfidava i rivoluzionari sul loro terreno.
LA PERSECUZIONE. Per far fuori una forza non controllabile che minacciava il proprio potere, racconta Iannaccone, il governo promosse campagne di persecuzione e denigrazione degli attivisti cattolici e mise al bando ogni organizzazione politica, sociale, culturale cattolica: il Partito Catolico Nacional, il sindacato cattolico e molte associazioni studentesche. Poiché neanche impedendogli di partecipare alla vita pubblica il “problema” dei cattolici sembrò risolversi, il presidente Plutarco Elias Calles, feroce politico anticlericale, soprannominato “el turco”, nel 1925 aumentò la repressione varando una legge che, nei fatti, avrebbe eliminato la Chiesa in Messico: il clero fu espulso, ogni cerimonia e rito cancellati; chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità, furono chiusi o confiscati. Fu così che «il governo federale» messicano «tentò per la seconda volta nella storia della repubblica, dopo l’indipendenza ottenuta nel secolo precedente, di scristianizzare il paese».
RIVOLTA DEI CRISTEROS. Elencando con precisione tutti gli sforzi per eliminare la Chiesa da parte di Calles e dei suoi uomini, il saggio di Iannaccone narra le storie dei più illustri messicani che decisero di abbandonare le proprie vite per darsi alla macchia e combattere il governo, isolati dal mondo e lasciati soli dalle altre nazioni (grazie all’astuzia diplomatica del presidente). Mentre i governativi pensavano di poter sconfiggere i “cristeros” in breve tempo, i cattolici armati, guidati dal generale ateo ed eroe di guerra Enrique Gorostieta, riuscirono a resistere per oltre quattro anni lottando per poter ritornare a pregare, battezzarsi e confessarsi liberamente.
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Cristiada e i Cristeros perseguitati. «È la storia del mio popolo e della mia famiglia»
Padre Francisco Elizalde spiega cosa accadde in Messico ai cattolici perseguitati dal governo massone. E come questa storia abbia dato frutti
Cristiada è il film che ha fatto discutere perché, sebbene sia girato con attori famosi come Andy Garcia, non è stato diffuso e nemmeno tradotto in molte lingue. La pellicola racconta degli 85 mila cattolici, detti Cristeros, che combatterono contro il governo anti-cristiano per difendere la loro fede in Cristo Re.
La storia alla base del film è poco conosciuta. Nel 1926 il dittatore Plutarco Elias Calles adottò misure repressive che arrivarono fino ad impedire l’accesso ai sacramenti ai fedeli. La popolazione cominciò così una protesta non violenta, ma la totale assenza di libertà religiosa fece impugnare le armi ad alcuni, sostenuti dal popolo e dai sacerdoti. La violentissima persecuzione durò tre anni e alla tregua non seguì la piena libertà. Il martirio prima e le prove successive poi hanno rinforzato la fede del popolo messicano e generato moltissime vocazioni. «La mia stessa famiglia che fa parte di quella storia ne è segno», così padre Francisco Elizalde, missionario messicano e direttore generale del Fondazione Villaggio dei Ragazzi di Caserta, racconta quanto avvenne.
All’inizio i cattolici messicani reagirono alle persecuzioni comprando il minimo indispensabile e non vendendo nulla.
La forza della fede del popolo riuscì a portare il paese in recessione, facendo fallire la Banca di Tampico e la Banca inglese, così da fare inferocire il governo di Calles, un vero e proprio dittatore. Ai cristiani, più che il proprio benessere, importava la propria libertà di culto e religiosa, quella che il regime impediva.
Perché si arrivò ad usare la violenza?
Il governo di Calles non volle mai trattare. Prima si percorsero vie diplomatiche e pacifiche, ma, poi, visto che era tutto inutile, il popolo dovette impugnare le armi. Fu l’exstrema ratio. E fu necessaria, perché un cristiano non può vivere senza i sacramenti. Tanto che, se non li appoggiò ufficialmente, la Chiesa non condannò mai l’azione dei Cristeros.
Perché Calles non volle trattare?
Calles era un massone anticlericale, applicò la costituzione del 1917, identica a quella francese e ostile alla Chiesa. Aveva paura della libertà che dà il cattolicesimo. La cosa che ci deve far pensare, che è anche la più grande contraddizione, è che tutto ciò avvenne con una popolazione al 95 per cento fortemente cattolica: gli anticlericali erano una minoranza, ma, raggiunto il potere, riuscirono a instaurare un regime di una violenza indicibile, che non rappresentava il popolo. Così l’esercito cominciò a entrare nelle chiese, uccidendo la gente che partecipava alla Messa, profanando il Santissimo Sacramento. I sacerdoti furono uccisi, la gente, ragazzini compresi, fu torturata, impiccata e appesa ai pali della luce così che tutti vedessero. Molti preti non messicani e alcuni vescovi furono invece cacciati dal paese.
Perché la Chiesa firmò gli accordi di pace quando i Cristeros stavano ormai per vincere?
I Cristeros stavano vincendo, l’unico dubbio è se il movimento, che lottava sopratutto nel centro del Paese, sarebbe diventato nazionale. Ma non sapremo mai quello che sarebbe successo se questo non fosse accaduto. Detto ciò, la gente come me conosce la storia dai propri padri e sa che i Cristeros non volevano firmare gli accordi. Tutti i messicani sanno che, come si vede nel film, i Cristeros sapevano che il governo non avrebbe mai smesso di perseguitarli. Ma la scelta fu presa e loro, per obbedienza alla madre Chiesa, depositarono le armi sapendo bene che questo avrebbe voluto dire la loro condanna a morte. E infatti molti morirono anche se il presidente aveva assicurato il contrario.
Come mai papa Pio XI, che non appoggiò mai ma nemmeno condannò la rivolta, prese questa decisione?
Non so se fu mal consigliato sulla vittoria imminente dei Cristeros o se preferì la resa, sperando così di arginare i massacri.
Cosa accadde in seguito?
Che i preti, ed è così ancora oggi, non potevano girare con gli abiti religiosi, che non c’era libertà di educazione, religiosa, di espressione. C’erano ancora sequestri, torture e persecuzioni per tutti coloro che difendevano la libertà di pensiero. Mio nonno, Octavio Elizalde, visse quel periodo di guerra fredda sotto minaccia: si occupava di diffondere clandestinamente riviste, articoli. Era un avvocato quindi contribuiva a difendere la fede con la penna. Fu minacciato anche prima, quando aiutava il beato Miguel Agustín Pro, che clandestinamente diceva Messa distribuendo migliaia di comunioni, e che morì ucciso gridando: «Viva Cristo Re!». Durante la rivolta dei Cristeros veniva in casa dei nonni travestito da panettiere o da giornalaio per farsi aiutare dal nonno. Una figura che lasciò un segno profondissimo in tutta la mia famiglia.
Scandalizza che alcuni preti fossero nelle fila del movimento.
La domanda sull’uso lecito delle armi ritorna al discorso dell’estrema ratio: per difendere la libertà di culto non c’erano più altre vie. Tanto che molti Cristeros poi sono stati beatificati e pure molti preti che si sono presi cura di loro, non quelli che hanno impugnato direttamente le armi. Nel film appare il piccolo José Sánchez del Rio, giovane Cristeros beatificato nel 2005 da Benedetto XVI. Morì testimoniando la forza di Cristo: sotto tortura, per costringerlo ad abiurare, urlò: «Cristo dammi la forza!», mentre in prigione chiese l’eucarestia di nascosto. Scrisse alla madre che non era mai stato così facile guadagnarsi il cielo. Questo ci fa chiedere chi sia Colui che dà a un ragazzino la forza di amare fino a dare la vita chiedendo perdono per i suoi carnefici e urlando «Viva cristo Re!».
Oggi ci sono ancora delle misure restrittive. Uno spargimento di sangue inutile?
Quando ho rifatto il passaporto, sette anni fa, mi hanno impedito di fare le foto con l’abito. Ma anche se la lotta dei Cristeros non ha portato alla piena libertà religiosa, il frutto di quegli anni dolorosi e del sangue dei martiri io lo vivo nella mia carne. Tertulliano diceva che il sangue dei martiri è il seme dei cristiani, e, aggiungo io, anche delle vocazioni. La mia famiglia, che ha avuto la possibilità di ospitare in casa un testimone della fede come il beato Miguel Agustín Pro, si è radicata nella fede profonda in Dio. Perché non si può morire per un’idea, ma solo per una persona che si ama più di se stessi. Io ho respirato questo, la mia fede è cresciuta così. Tanto che io e mio fratello siamo entrati in seminario, mentre ho due zii sacerdoti gesuiti e una zia suora. È un fatto poi che nella città di Guadalajara, la più perseguitata, oggi c’è il più grande seminario del mondo con oltre 700 seminaristi.
@frigeriobenedet
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I "cristeros" messicani (1926-1929)
di Oscar Sanguinetti
1. Per una civiltà cattolica iberoamericana
La rivolta dei cristeros inizia nel 1926 e si conclude, anche se non definitivamente, nel 1929. E cristeros deriva da Cristos Reyes, i "Cristi-Re", come gli avversari definivano con intento spregiativo gli insorti cattolici che combattevano al grido di "Viva Cristo Re!", riprendendo il tema della regalità di Cristo, all'epoca molto popolare e in sintonia con l'enciclica sull'istituzione della festa di Cristo Re Quas primas, pubblicata nel 1925 da Papa Pio XI (1922-1939).
Nel Messico, nei secoli seguenti la scoperta e la conquista dell'America, era avvenuta una feconda fusione fra cattolicesimo e cultura indigena. La civiltà iberoamericana, una miscela di elementi senza eguali nel tempo e nello spazio, vi aveva dato frutti di grande originalità in tutti i campi, compresi quelli delle arti figurative e della musica. All'inizio del secolo XX questa cultura, con una religiosità luminosa, pubblica, sopravvive ancora, anche se allo stato residuale e subalterno, nei ceti popolari e rurali, mentre le classi alte e il ceto politico e intellettuale hanno ampiamente assorbito le idee illuministiche e liberali. Dagli inizi del secolo alla guida della repubblica presidenziale federale messicana, per lo più a seguito di colpi di Stato e di guerre civili, si era avvicendata una serie di generali o di despoti, espressione della fazione di volta in volta vincente all'interno dell'unico e intoccabile establishment massonico e laicista, prevalso nella seconda metà dell'Ottocento. Quando scoppia l'insurrezione cattolica è al potere un generale, Plutarco Elías Calles (1877-1945), che pratica una politica rigidamente "modernizzatrice" - il suo partito si autodefinisce "rivoluzionario istituzionale" -, filostatunitense e con simpatie per il nascente socialismo latinoamericano. Questa politica porta il governo messicano a inasprire la lotta contro la Chiesa, vista non solo come centro sovranazionale di diffusione dell'"oppio del popolo" - secondo il cliché laicista - ma pure come bastione della conservazione e come ostacolo al latente totalitarismo statale. Il regime di Calles si differenzia dai precedenti per lo stile, il pugno di ferro, lo spirito da scontro epocale che egli ostenta, anche personalmente, nel realizzare la sua politica e che gli varrà, fra i cattolici, il nomignolo di "Nerone".
2. Il conflitto fra Stato e Chiesa
Nel 1917 il governo di Venustiano Carranza (1859-1920) vara una costituzione fortemente laicistica, che però non viene mai applicata. Nel 1926 il Governo Calles ordina ai governatori dei diversi Stati di emanare decreti volti a far applicare il dettato costituzionale in materia di disciplina dei culti. Essi prevedevano, di fatto, la radicale separazione fra Chiesa e Stato, la completa scristianizzazione dei luoghi pubblici - tribunali, scuole, e così via -, l'esproprio totale degli edifici di culto e dei seminari, la proibizione dei voti e degli ordini religiosi, la trasformazione del clero in un corpo di funzionari statali e il "numero chiuso" per lo stesso clero, che doveva essere messicano di nascita, sancendo così l'espulsione dei missionari stranieri. Nel 1925 il Governo, mentre favorisce la diffusione delle missioni protestanti nordamericane, tenta anche - ma invano, a causa della reazione dei cattolici -, di dar vita a una Chiesa Nazionale separata da Roma. Le violenze poliziesche seguenti il tentativo di applicare la nuova disciplina antiecclesiastica, in vigore dal 31 luglio 1926, generano immediatamente la reazione del mondo cattolico, che dà vita a una Lega Nazionale di Difesa della Libertà Religiosa. L'episcopato messicano, in sintonia con la Segreteria di Stato vaticana, retta dal card. Pietro Gasparri (1852-1934), dopo diversi tentativi, falliti, di resistenza legale non violenta - scioperi, boicottaggi e petizioni popolari -, ritiene di reagire alla escalation del terrorismo governativo con un provvedimento inusitato e clamoroso: in segno di protesta sospende completamente l'esercizio del culto pubblico. L'atto, senz'altro legittimo, si rivela però imprudente perché non teneva conto della determinazione degli ambienti governativi di andare fino in fondo nell'affermare il proprio controllo sulla Chiesa - anche se prove in questo senso non erano mancate negli anni precedenti - e, soprattutto, sottovalutava l'impatto che la sospensione del culto avrebbe avuto sul vissuto popolare quotidiano, specialmente dei più umili. Infatti, la cultura del popolo, profondamente nutrita di Bibbia e di leggende religiose, caratterizzata da una forte tensione escatologica, vivacizzata da un'intensa e diffusa pratica devozionale, interpretava consuetamente gli avvenimenti all'interno di categorie che si potrebbero definire "mistiche" e "apocalittiche". Anche la persecuzione di Calles viene dunque letta come l'abbattersi di un flagello biblico, e con altrettanto spirito apocalittico nasce nel popolo la convinzione che occorra reagire, come i fratelli Maccabei, impugnando le armi per ripristinare la giustizia violata.
3. L'insurrezione
Fin dai giorni immediatamente seguenti la sospensione del culto, in più di uno Stato, iniziano ad accendersi focolai di sollevazione. La Santa Sede si oppone alla rivolta armata, l'episcopato non la promuove né l'appoggia. Il mondo cattolico ufficiale - la Lega Nazionale di Difesa della Libertà Religiosa - persiste nell'azione di resistenza legale, che viene repressa con ancora maggiore asprezza: i federali non fanno distinzioni troppo sottili fra cristeros e circoli di Azione Cattolica, il che provoca innumerevoli martiri, particolarmente fra il clero. Il più noto è il sacerdote gesuita Miguel Agustín Pro (1891-1927), beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988.
Dall'agosto del 1926 i focolai di rivolta diventano un incendio che divampa in quasi tutti gli Stati della federazione. Comunità intere si sollevano in massa. Clan familiari e confraternite laicali si danno alla macchia sulle montagne, da dove attaccano le truppe federali e le formazioni irregolari filogovernative, i cosiddetti "agraristi". Lo scontro è fin da subito violentissimo. Contro i ribelli - che gli avversari disprezzano come esseri subumani -, numerosi ma male armati e privi d'inquadramento militare, il Governo mobilita le truppe migliori dell'esercito nazionale, inclusa l'aviazione. Cionostante, i cristeros, forti dell'appoggio popolare e praticando la guerriglia, infliggono gravi perdite ai federali e aumentano, passando a controllare e ad amministrare aree sempre più vaste del territorio nazionale, in particolare nella parte centro-meridionale del paese, negli Stati di Durango, Morelia, Jalisco, Zacatecas, Michoacan, Veracruz, Colima e Oaxaca. Un salto di qualità si ha quando, nel 1927, la guida dell'esercito cristero - che conta circa ventimila uomini - viene presa dall'ex generale federale Enrique Gorostieta Velarde (1891-1929), che aderisce inizialmente alla rivolta più per spirito anticonformista che per convinzione religiosa, ma che maturerà in consapevolezza, prima di essere ucciso a tradimento, in combattimento, il 2 giugno del 1929. Fra il 1927 e il 1928 gli insorti sono in grado di affrontare l'esercito federale in vere e proprie battaglie campali, con impiego dell'artiglieria e della cavalleria. Gli aiuti ai combattenti provengono dalla rete creata dalle famiglie, dalle confraternite e dalle organizzazioni di soccorso. In questa sanguinosa guerra clandestina si distinguono le brigate paramilitari femminili, intitolate a santa Giovanna d'Arco (1412-1431). Il clero - i vescovi, tranne due o tre, sono fuggiti all'estero e i sacerdoti vivono nella clandestinità - è pressoché assente fra i combattenti, che devono supplire alla mancanza dei sacramenti con la preghiera, soprattutto con la recita del rosario e dei salmi e con la devozione ai santi patroni. Alla fine del 1928 per i federali comincia a profilarsi il fantasma di una sconfitta sul campo: non riescono più a sostenere il peso della guerra civile su tanti fronti e, soprattutto, sembrano stanchi del terrore su vasta scala, che hanno scatenato contro il loro stesso popolo. Grandi battaglie hanno luogo agli inizi del 1929 - la maggiore è quella di Tepatitlán, nello Stato di Jalisco, il 19 aprile - e il movimento cristero, che conta circa cinquantamila combattenti, è molto vicino alla vittoria.
4. Gli "Arreglos" e la "Segunda"
Davanti alle crescenti difficoltà di domare l'insorgenza, il Governo fa balenare la possibilità di una tregua e i vertici cattolici, che non comprendono la guerra dei cristeros e sono sempre rimasti in spasmodica attesa di un segno di buona volontà da parte dell'avversario, raccolgono subito il segnale e accordi, del tutto informali, gli Arreglos, vengono frettolosamente sottoscritti il 22 giugno 1929, con l'attenta e determinante regìa della Segreteria di Stato vaticana, e il culto pubblico riprende. Per la Chiesa e per la popolazione questo costituisce un indubbio sollievo, ma per la sollevazione armata significa la fine.
Venuto meno il generale consenso popolare, costretti a cedere le armi e a tornare ai propri villaggi, i cristeros si trovano immediatamente esposti alla vendetta, anche privata, dei federali, dal momento che gli Arreglos non contenevano nessuna garanzia a salvaguardia dei combattenti. Mentre la Chiesa non ricupera la sua libertà e, anzi, continua a essere perseguitata, la repressione nei confronti dei combattenti cristiani - soprattutto dei capi e dei quadri -, per lo più contadini, continua ininterrottamente, almeno fino agli anni 1940. Così i cristeros, dopo una ripresa disperata della rivolta fra il 1934 e il 1938 - la cosiddetta Segunda -, quasi scompaiono, talora fisicamente, dalla storia del paese: restano ancora oggi, indomiti, alcuni piccoli nuclei di reduci che pubblicano un periodico, David. Nonostante l'oggettivo appeasement, fra Stato e Chiesa permangono strascichi latenti di quella guerra mai vinta e mai persa, fra i quali può forse venire inquadrata la "misteriosa" uccisione, il 24 maggio del 1993, del card. Juan Jésus Posadas Ocampo (1926-1993), arcivescovo di Guadalajara.
La guerra dei cristeros, gloriosa e sfortunata, costata dalle settanta alle ottantacinquemila vite umane, sembra essere considerata tanto dalla Chiesa quanto dallo Stato messicani un malaugurato incidente di percorso nel processo di ralliement fra Chiesa e mondo moderno, sì che ricerche storiche, come quella fondamentale dello storico e sociologo francese Jean Meyer, negli anni 1960, hanno incontrato non pochi ostacoli. In realtà, si tratta di una pagina di storia complessa e ancora non del tutto chiarita - a proposito della quale le animosità, soprattutto laicistiche, non si sono ancora placate -, ma altamente significativa. Sul piano storico, siamo di fronte a un episodio dello scontro plurisecolare, nella sua versione armata e popolare, fra la Modernità, con i suoi processi di secolarizzazione delle culture e delle istituzioni politiche a fondamento religioso, e tali culture, pur residualmente di stampo sacrale tradizionale. Sul piano politico, la "lezione messicana" contribuisce all'elaborazione di una nuova strategia della Rivoluzione nei confronti dei cattolici, quella della "mano tesa".
Cristiada: l’esercito di Cristo Re
di P. Angelomaria Lozzer
Grazie al recente film “Cristiada”, scritto da Michael James Love e diretto da Dean Wright, dichiarato uno fra i colossal più belli realizzati negli ultimi anni, con un cast di eccezione (Andy Garcia, Peter O’ Toole, Eva Longoria, Catalina Sandino Moreno, Oscar Isaac), si è rimessa in luce una delle pagine del novecento più raccapriccianti e in un certo senso più gloriose per la testimonianza eroica di fede di tanti martiri. Uno squarcio di storia che continua ad essere taciuta e occultata, ma che in questo anno della fede speriamo risplenda a testimonianza ed esempio per cristiani oggi così superficiali e tiepidi.
Per comprendere bene la storia della Cristiada o della rivoluzione dei Cristeros, come la chiamavano con disprezzo i nemici della Chiesa, occorre dare uno sguardo alla storia del Messico a partire dai tempi dei moti rivoluzionari per l’indipendenza del Paese, iniziati nel secolo XIX.
I primi due tentativi di ribellione al dominio spagnolo furono portati avanti da due sacerdoti sospesi poi a divinis dai loro rispettivi vescovi: Miguel Hidalgo y Costilla, frequentatore tra l’altro di logge massoniche e Josè Morelos. Nel settembre del 1820 l’ufficiale e proprietario terriero Augustin de Iturbide riusciva a entrare trionfalmente in Città del Messico proclamandosi primo imperatore della Nuova Spagna. Nelle intenzioni, Iturbide voleva garantire l’indipendenza del paese, l’unione e la pace interne, nonché la salvaguardia della religione cattolica. La Spagna di quegli anni in effetti aveva assunto toni sempre più liberali, come del resto gran parte del mondo occidentale, e la Chiesa stessa, conforme ai propri principi, vi si era sempre più estraniata. Pur appoggiando gli indipendentisti però l’Episcopato si trovò subito in contrasto con Iturbide, in quanto quest’ultimo voleva conservati i diritti di patronato di cui privilegiava la vecchia Spagna, mentre i Vescovi vertevano ormai per una separazione tra Stato e Chiesa. Iturbide comunque rimase poco tempo al potere perché ben presto, come accadde poi sovente anche nella storia successiva, venne estromesso da ex amici. Così salì al potere il massone Antonio Lopez de Santa Anna. Santa Anna sapendo di non poter sostenere una guerra aperta contro la Chiesa, ma anzi di averne bisogno per fronteggiare la guerra contro gli Stati Uniti, cercò una certa collaborazione con l’Episcopato. Se da una parte però le stringeva la mano con l’altra cercava di portare avanti riforme di stampo liberale. La guerra con gli Stati Uniti (1846-1848) portò inevitabilmente il paese al crollo finanziario e Santa Anna si vide costretto a vendere per dieci milioni di dollari agli Stati Uniti la Valle di Mesilla. Questo scatenò in Messico la reazione. I liberali allora ne approfittarono per conquistare Città del Messico deponendo Santa Anna. Il 4 ottobre del 1855 si costituì così al governo una giunta liberale di massoni e anticlericali che diede alla storia del Paese una svolta decisiva che avrebbe posto le basi a quello che per la Chiesa si sarebbe trasformato in un lungo calvario.
Il nuovo governo emanò tre leggi dette “preparatorias”, condannate poi aspramente da Pio IX nel dicembre del 1856. In breve esse sottraevano la giurisdizione sui matrimoni, nascite, decessi alla Chiesa; vietavano la riscossione forzata delle competenze parrocchiali e riducevano la tariffa sulle cerimonie religiose (che garantivano il sostentamento del clero); mettevano in vendita i beni delle corporazioni, tra le quali era inclusa la Chiesa. Nel 1857 vennero varate altre leggi ancora più dirette, tra cui il divieto di portare l’abito religioso e manifestazioni religiose in pubblico, vietavano l’acquisto di beni e terreni, l’accettazione di eredità e lasciti da parte della Chiesa. L’uso delle chiese doveva essere disciplinato dalle autorità statali e la chiesa veniva sempre più pubblicizzata come la nemica numero uno della Nazione.
La reazione dei conservatori, (a cui appartenevano le categorie vicine all’esercito, alla Chiesa e ai proprietari terrieri) contro i liberali (creoli, meticci, intellettuali) non tardò a farsi sentire. Il generale Felix Maria Zuloaga il 19 dicembre del 1857 dichiarò guerra al governo dando l’avvio a quella che si sarebbe trasformata nella più spaventosa guerra civile del secolo. I liberali, grazie al sostegno dagli Stati Uniti, ne uscirono vincitori. In questi tre anni di atrocità molti preti vennero uccisi anche solo per aver negato i sacramenti ai liberali e la politica antiecclesiastica di quegli anni divenne sempre più insostenibile. Vennero distrutte chiese, trasformati conventi in alberghi, soppressi gli ordini religiosi, incamerati i beni ecclesiastici.
Napoleone III allora approfittando dell’indebolimento estremo in cui era precipitato il Messico con la guerra civile e desideroso di estendere il suo potere nelle Americhe, il 7 giugno 1863 inviava le sue truppe a Città del Messico. Le forze militari francesi varcavano la capitale trionfanti, stabilendovi la monarchia costituzionale e incoronandovi sovrano Massimiliano D’Austria. Il nuovo sovrano in quel clima liberale e massonico, venne subito salutato dai conservatori come un liberatore, ma ben presto si rivelò anch’egli una delusione. Conservò, infatti, la legislazione precedente con pochissime modifiche. Dietro l’apparenza del cattolico, Massimiliano nascondeva la sua appartenenza alla massoneria, tanto che gli venne offerta persino la presidenza del Supremo Consiglio delle Logge che rifiutò solo per accettare quella di “protettore dell’ordine”. La sua reggenza però fu di pochi anni, perché il ritiro dell’esercito francese nel 1866 portava nuovamente il governo ai liberali. Iniziava così per la Chiesa un nuovo periodo di acerbe persecuzioni. Il governo diede impulso alla diffusione del protestantesimo allo scopo di soppiantare l’odiato cattolicesimo. Fu in questo tempo che sorsero gli antesignani dei Cristeros, ossia i Religioneros, che diedero il via a moti di insurrezione armati contro il governo. I vescovi però preoccupati della stabilità del paese chiesero ai propri fedeli sottomissione all’autorità. Tuttavia la situazione che si era creata era tale che diede occasione a Porfirio Diaz di dichiarare nel 1877 guerra al governo e di uscirne vincitore. Pur promettendo rispetto nei confronti della Costituzione, non la applicò in quelle leggi ostili alla Chiesa, instaurando una collaborazione con l’episcopato. Diaz non era di certo un uomo di fede, anzi era anch’egli massone come i suoi predecessori, ma sapeva però per esperienza personale quanto una lotta aperta contro la Chiesa poteva minare la stabilità del governo, e dare il via ad un nuovo dittatore di turno. Diaz diceva: “Non ci sono ricchezze considerevoli nelle mani della Chiesa e ci sono rivolte popolari solo quando il popolo è ferito nelle sue tradizioni più radicate, nella legittima libertà di coscienza. La persecuzione alla Chiesa, che riguardi o no il clero, significa la guerra e la guerra tale che il governo, per vincerla, ha bisogno dell’aiuto umiliante e dispotico, degli Stati Uniti d’America. Senza la sua religione il Messico è perduto senza rimedio”. Negli anni della dittatura di Diaz (1877-1911) la chiesa poté riprendere vita ed estendersi. Nacquero, infatti, nuovi seminari, sorsero nuove diocesi, si formò un partito cattolico e altre varie iniziative di ispirazione cristiana tese a favorire la nascita di piccole proprietà terriere, casse di risparmio e cooperative di consumo a beneficio di quella popolazione contadina che spesso era costretta a ritmi lavorativi da schiavi. Il lungo periodo di dittatura di Diaz, se da una parte segnò un periodo di pace per la Chiesa e di progresso tecnico del paese sotto l’influsso della cultura positivista francese, dall’altra presentò anche notevoli squilibri sociali. Dopo la rielezione di Diaz nel 1910, iniziarono sul territorio numerose rivolte, fazioni e lotte, passate poi sotto il nome di “caudillaje”, dove capi banda, con l’aiuto degli USA, attaccavano ponti, linee ferroviarie e telegrafiche, conquistando i centri minori del paese. Diaz nel maggio del 1911 si vide costretto a dimettersi e ad abbandonare il Paese. Lo succedette Madero, ma per breve tempo perché già nel 1913 veniva spodestato e ucciso dal suo generale Victoriano Huerta. Quest’ultimo, più benevolo verso la Chiesa, venne di li a poco, con l’aiuto dell’America e della Massoneria, abbattuto e vinto da Carranza, Obregon, Villa e Zapata, che cercarono tra loro un accordo. Le loro visioni politiche però erano in contrasto tra loro al punto che ne nacque un’altra guerra civile, e per intervento ancora una volta degli USA ebbe la meglio la parte più liberale e anticlericale capeggiata da Carranza e Obregon, i quali pianificarono un vero e proprio attacco alla Chiesa. Basti pensare che solo nel febbraio del 1915 vennero uccisi in Messico 160 sacerdoti.
Mr. Charles Hughes, segretario di Stato alla Casa Bianca, in un discorso dell’agosto del 1920 dichiarava che: “la condotta del Governo di Wilson verso il Messico è un capitolo di intrighi e di contraddizioni. Si abbandonò Huerta, riconosciuto dalle Potenze Europee, perché non ci serviva troppo, per sostenere invece Carranza che si era messo ai nostri ordini”. D’altra parte il Messico era un paese ricchissimo di minerali, come oro, argento, platino, mercurio, rame, piombo, zolfo, ferro, carbone ed anche di petrolio. Il suolo era poi fertilissimo, con boschi immensi di legnami vari e pregiati. Non stupisce quindi che gli Stati Uniti e la massoneria americana abbiano continuamente messo gli occhi e le mani su questo ricchissimo paese che rischiava di diventare un potente rivale, tanto più forte e unito in quanto cattolico, sostenendo di volta in volta chi gli tornava più comodo. Il presidente Roosevelt aveva detto: “L’assorbimento dell’America Latina è molto difficile finché sarà cattolica”. Lo storico Ziliani commentava: “la dottrina di Monroe: l’America per gli americani ha avuto ora una nuova interpretazione elastica con questa formula: tutta l’America e tutto il mondo per la massoneria”.
Il primo maggio 1917 entrava in vigore, votata dall’Assemblea di Querétaro, la Costituzione, che stipulava nuove leggi oppressive per la Chiesa. Era negata la possibilità dell’insegnamento ai religiosi, vietata la stampa cattolica, proibiti i voti religiosi e gli ordini monastici, i luoghi di culto dovevano passare alla nazione, e alla Chiesa era disdetto il diritto di proprietà e di organizzazione di opere caritative, mentre il culto diventava competenza dello Stato. All’Assemblea parteciparono, guarda a caso, anche i rappresentanti di Wilson. Tale Costituzione intendeva unire sotto un’unica bandiera lo schieramento liberale, formato da vari schieramenti e fazioni, spingendo tutti verso un nemico comune, un unico bersaglio su cui focalizzare l’attenzione. Obregon e Carranza si trovarono però ben presto in diverbio. Nel 1920 Obregon con l’aiuto dei due generali Calles e De la Huerta, riuscì a prendere il potere. Egli vagheggiava di ricondurre la Nazione al tempo precolombiano, quando l’annuncio del Vangelo non aveva, come diceva lui, ancora avvelenato le menti dei messicani. Volendo astenersi nel frattempo da una vera e propria guerra aperta alla Chiesa, che non giudicava ancora matura. Obregon, allora, per attaccare la Chiesa si servì dei marxisti leninisti della CROM, che proteggeva legalmente nelle loro razzie, giustificandoli giuridicamente di volta in volta. Nel 1921 inviò anche un suo impiegato personale al Santuario di Guadalupe con una bomba nascosta in un vaso di fiori, allo scopo di far saltare in aria l’icona della Madonna, ma essa miracolosamente restò illesa. L’11 gennaio del 1923 Obregon espulse anche il nunzio apostolico, monsignor Filippi, con il crimine di aver benedetto e posato la prima pietra di un nuovo monumento in onore di Cristo Re, mentre il monumento venne fatto esplodere.
Per fronteggiare questa minaccia costituzionale nei confronti della Chiesa, il 14 marzo 1925 nasceva la Lega per la difesa della libertà religiosa. Formata in principio solo da avvocati che si impegnavano a tutelare la Chiesa dall’offensiva giuridica del governo, la Lega divenne col passare del tempo l’organo omnicomprensivo della resistenza cattolica, assicurando la difesa delle chiese e delle sedi cattoliche dagli attacchi della teppaglia, radunando attorno a sé le varie associazioni cattoliche del paese, come la Società dei Cavalieri di Colombo, della Gioventù Messicana, dell’Azione Cattolica, etc., costituendo su tutto il territorio una rete compatta di intenti e azioni.
Nel 1924 Obregon designò come suo successore Calles, votato solo dal 2 per cento della popolazione, uomo spietato e senza scrupoli, che si meritò ben presto l’appellativo di “Nerone”. Cacciato di casa e diseredato dal padre per la sua violenza e cattiveria, Calles sin dalla sua giovinezza si era mostrato di indole crudele. Datosi al brigantaggio aveva seminato con la sua banda sanguinaria il terrore ovunque passava. Catturato dai soldati federali, se non fosse stato per l’intervento influente di un amico (poi dallo stesso Calles per “riconoscenza” fatto impiccare), era stato sul punto di essere fucilato. Ottenuta la grazia, parteggiò per l’uno o per l’altro contendente al governo secondo l’opportunità, ottenendo infine da Obregon la nomina a governatore dello stato di Sonora. Lì si era distinto subito per la sua ferocia, tanto da vantarsi nel febbraio del 1928 dinanzi al corrispondente di Daily Express di Londra di aver assassinato, ai tempi del suo governatorato, di propria mano non meno di 50 sacerdoti e di non aver lasciato nemmeno una chiesa aperta e un sacerdote in tutto lo Stato di Sonora. Tutto questo gli aveva attirato la simpatia di Obregon, al punto tale che lo aveva promosso come suo intimo collaboratore nella capitale. Obregon, infine, gli aveva ceduto la Presidenza con l’obbligo di restituirgliela a mandato concluso. Se ci si vuole fare un’idea ancora più chiara della crudeltà di Calles, basti pensare che il numero dei preti, durante gli anni del suo mandato politico, passò da circa 4.500 prima del 1926, a soli 334 nel 1934. Nel 1935 ben 17 stati messicani non contavano nemmeno un prete nel loro territorio.
Calles eletto quindi presidente nel novembre del 1924, iniziò il suo mandato fondando una nuova chiesa, detta “chiesa patriottica messicana”, nominando patriarca di tale chiesa Joaquin Perez, un ex prete massone che sostituì nella celebrazione della Messa il vino con il mescal, una bevanda alcolica ottenuta dalla distillazione del succo di agave. A Perez succedette un altro massone del trentatreesimo grado, che non era nemmeno sacerdote di nome Edoardo Davila, ma il popolo messicano ben radicato nella fede cattolica non simpatizzò per nessuno dei due e il governo stesso si vide costretto a sopprimerla. Nonostante il fallimento, Calles si meritò la Medaglia al merito massonico, che gli venne consegnata dal Gran Commendatore del Rito Scozzese il 28 maggio 1926. Il 12 luglio dello stesso anno apparve sulla stampa internazionale il seguente comunicato: “La massoneria internazionale si assume la responsabilità per tutto ciò che sta accadendo in Messico, e si prepara a mobilitare tutte le sue forze per la metodica, ed integrale applicazione del programma concordato per questo paese”.
Calles, difatti, già all’inizio del suo mandato aveva dato ordine a tutti i governatori degli Stati federali di emettere decreti che assicurassero il rispetto integrale della costituzione in materia religiosa. Non pago di questo, il 3 luglio del 1926, lui stesso aveva fatto uscire una serie di leggi penali che rafforzavano e sanzionavano le leggi del 17: veniva abolita la libertà di insegnamento della fede cristiana e ogni sua espressione nelle parole, nei gesti e nei segni. Espressioni verbali come “Dio me ne scampi” o “Se Dio vuole” vennero multate. Erano puniti poi i genitori che avessero osato insegnare ai figli la dottrina cristiana. Alcune chiese vennero subito trasformate in stalle o in carceri, mentre ai preti vennero obbligati a registrarsi. Nello stato di Tabasco persino fu dato loro obbligo di sposarsi se volevano continuare nell’esercizio delle proprie funzioni e in molti altri casi dovettero anche giurare di non fare proselitismo.
Il 21 luglio, ancor prima dell’entrata in vigore della legge Calles, un negoziante di Puebla di 66 anni, di nome Josè Garcia Farfan, venne fucilato per il crimine di aver esposto il cartello “Viva Cristo Re”. Morì perdonando, mentre sul suo libro di preghiere si poteva leggere una frase scritta a penna: “Mio Dio aiutatemi a fare qualcosa per voi; io non ho fatto ancora niente”.
I vescovi tentarono subito una mediazione con il governo, per fermare questa pazzia, ma Calles rispose loro ironicamente: “Non vi resta, se non volete sottomettervi, che due strade: il ricorso al Parlamento o il ricorso alle armi”. Nel frattempo i vescovi, dopo essersi consultati con Roma, decretarono la sospensione del culto e dei sacramenti che sarebbe entrata in vigore in contemporanea alla famigerata legge Calles il 31 del mese di luglio. D’altra parte alla Chiesa non restava altra strada se non si voleva assoggettare la fede al capriccio del governo. Le chiese in quei giorni vennero invase dal popolo desideroso di accostarsi per l’ultima volta ai sacramenti. Persino quelli che in chiesa non si vedevano mai non mancarono all’appello. Sembrava l’approssimarsi della fine del mondo! La risposta del governo fu ancora più spietata e la gran parte dei vescovi e dei sacerdoti si diede alla macchia o alla fuga.
La prima via proposta da Calles ai vescovi venne perseguita dalla Gioventù Cattolica con la raccolta di ben due milioni di firme, ma venne subito cestinata senza essere nemmeno presa in considerazione dal governo. Si formò allora una difesa sempre più organizzata dei cattolici per presiedere le chiese, onde evitare le profanazioni e proteggere la vita dei sacerdoti rimasti. I giovani dell’Azione cattolica si diedero il cambio giorno e notte tra sacrifici e pericoli per questa nobile causa, mentre la gran parte dei fedeli non cessava di innalzare al Cielo preghiere e penitenze per ottenere la fine a queste crudeltà, organizzando anche processioni in tutto il paese a piedi scalzi e coronati di spine. Furono promosse anche delle manifestazioni cattoliche soppresse nel sangue dall’esercito che sparò in più occasioni sulla folla. Si tentò allora la via del boicottaggio economico, che aveva già funzionato sotto Carranza, al fine di far recedere il governo dal suo intento. Non si doveva comperare se non il necessario, evitare l’uso dei mezzi di trasporto, non pagare le tasse, ne comperare benzina, tabacco,… La Lega poi dava disposizioni al popolo attraverso volantini, scritte sui muri…che venivano sparpagliati al vento o appesi alle vetrine dalle donne e dai giovani, tra mille pericoli. Tutto questo produsse nel popolo un tale fervore, che alcuni volantini suonavano così: “Grazie, signor Calles, voi ci state aiutando a convertire più anime che non i preti”. Un giorno la Capitale si trovò tutta tappezzata di striscioni “Viva Cristo Re” e un’altra volta vennero lanciati in aria 500 palloncini che scoppiando fecero piovere migliaia di volantini che inneggiavano al boicottaggio. La risposta di Calles, esasperato ed esacerbato dall’indomito coraggio dei cattolici, non si fece attendere. Vennero fatte chiudere le tipografie sospette, mobilitata la polizia nella ricerca dei colpevoli, riempite le carceri di donne e bambini. Maria Nieves Cuellar per esempio venne fucilata con due sacerdoti proprio per esser stata colta mentre divulgava i volantini del boicottaggio. Anche il fanciullo José Vargas di 13 anni catturato per lo stesso motivo, venne torturato dinanzi alla madre perché svelasse il nome degli altri complici, mentre la madre addolorata lo incoraggiava “Non dire nulla, figlio mio, pensa a Gesù e taci”. Infine, gli vennero tagliate le braccia e morì svenato. Le donne poi che uscivano dalle chiese erano rapite e violentate, allo scopo divulgativo di intimidire chiunque avesse voluto proseguire in quell’opera. Tuttavia la fede vinceva tutto, irrobustendo di una forza immane gli stessi bambini, tanto che lo stesso Santo Padre Pio XI poteva dire nel concistoro del 20 dicembre 1926: “Bambini e bambine nei primi albori della vita da alcuni mesi offrono uno spettacolo commovente, che strappa l’ammirazione di tutti quelli che pensano ed amano in terra, e degli stessi Angeli in Cielo”. Si pensi per esempio a Rosina Gomez di 12 anni, appartenente alla compagnia di S. Tarcisio e incaricata di portare la comunione ai carcerati e condannati a morte, che scoperta dai soldati federali arrivò a dire con audacia “non ho paura di voi, Gesù mi darà la forza”, mentre in un attimo inghiottiva le sacre particole e veniva assassinata. La classe più colpita fu però senz’altro il clero, giudicato come la vera causa di tutti i mali. Non si contano i sacerdoti assassinati per aver esercitato il loro ministero sacerdotale clandestino. Il vecchio parroco di Jalisco Francesco Vera venne fucilato con i paramenti sacri ancora addosso. Don David Uribe venne torturato al pari di S. Bartolomeo. Scorticato e grondante sangue da ogni parte continuava a gridare: “La morte, ma non l’apostasia. Che gioia! Morire piuttosto che rinnegare il Vicario di Cristo. Io amo il Papa! Viva il Papa! Io voglio morire per amore del Papa!”. Don Paolo Garcia scoperto mentre celebrava Messa in onore della vergine di Guadalupe nel giorno della sua festa venne torturato per 10 giorni. Gli furono tagliati gli orecchi, naso, lingua e cavati gli occhi perché rivelasse il nascondiglio dell’Arcivescovo, ma non ottenendo nulla venne finito a revolverate. Don Sabba Reyes, a cui i fedeli consigliarono di lasciare Tototlán mentre lui replicava: «Mi hanno lasciato qui e qui attendo. Vediamo che cosa dispone Iddio», venne invece legato a una colonna della chiesa in modo tale che i piedi non toccassero il suolo e lasciato in questa posizione per tre giorni. Nel frattempo senza cibo ne acqua venne punzecchiato con le punte delle baionette, gli vennero strappati i capelli e sputacchiato, e infine bruciate le mani. Condannato infine alla fucilazione e colpito dalla prima scarica, si rialzò in piedi con le forze che gli restavano per gridare per l’ultima volta “Viva Cristo Re”. Padre Gumersindo Sedano fu invece colpito da una scarica di fucile nell’atto di benedire. Coperto di fango e di sangue venne appeso ad un albero, denudato e squartato con un coltello, mentre il generale federale con gioia satanica avvisava Calles: “ho l’onore e il piacere d’informarla che questa mattina abbiamo ucciso il prete Sedano”. Ecco quali azioni ottenevano favori e promozioni! Don Josè Idael Flores dopo esser stato per tre volte impiccato senza successo, in quanto la corda si spezzava sempre, venne infine sgozzato con un coltello. Il francescano P. Giuseppe Perez venne invece legato al collo con una fune e trascinato con un autovettura in mezzo alle pietre per essere finito a revolverate. Don José Lezana venne colpito a bastonate per essersi opposto alla chiusura forzata della Chiesa e infine tagliato a pezzi con un accetta. Questi eroi e martiri non sono che un piccolo mazzo scelto dei fiori di un grande giardino. I preti poi che sopravvissero alle persecuzioni non passarono la vita di certo tra gli allori, ma in continue sofferenze, incertezze e paure. Si pensi al vecchio Vescovo di Colima, Mons. Amadore Velasco che a ottant’anni girava ancora con l’abito tutto rattoppato per le montagne condividendo la povertà, la fame e la sete, il freddo e i disagi del suo gregge.
Le guardie federali inscenavano parodie sacrileghe con vesti liturgiche, profanavano chiese, bruciavano i confessionali, mutilavano le statue e ne fucilavano le immagini sacre. Nella capitale il nuovo Ministro della Guerra tenne un discorso dal pulpito della chiesa di S. Gioacchino condito di bestemmie, seguito da un banchetto in cui vennero usati i calici sacri per bere e le pissidi come sputacchiere. Nella cattedrale di Tabasco vennero persino proiettati ai bambini immagini turpi e tenute conferenze oscene. A Queretaro il governatore Osornio arrivò a sedersi sulla cattedra vescovile facendo leggere alla sua figliola di 10 anni la poesia a satana: “Aiutaci, satana, colle tue legioni di ribelli. Se in questa lotta noi riusciremo a vincere Dio col tuo aiuto, ti promettiamo di adorarti. Il regno di Dio sarà tuo, o satana.” La massoneria non poteva che gioire! Il The new age riportò la seguente frase: “La chiesa cattolica ha pervertito i messicani per 400 anni. Il merito di Calles è di averlo liberato dall’ignoranza e dalla superstizione. Ecco perché questi può contare sulla nostra comprensione e sull’aiuto del Nord America”.
In questa situazione generale sopra descritta, si capisce che al popolo non restava che l’alternativa della ribellione armata, giacché la via pacifica perseguita nel cercare di portare Calles alla riflessione, poteva ben dirsi fallita. Tale guerra armata avrebbe dovuto moralmente inscriversi tra le guerre di legittima difesa. Essa doveva costringere il governo a retrocedere nella lotta alla Chiesa o a crollare. La storia del Messico d’altra parte insegnava che l’obbiettivo non era impossibile, e i mezzi erano proporzionati. Lo stesso Osservatore Romano, l’11 agosto 1926, dichiarò: “Né si dica che potrebbero i cattolici unirsi e organizzarsi e tentare una difesa per le vie legali; perché ad ogni associazione di fedeli per un tale fine è strettamente vietata dalla legge Calles, sicché non resta alle masse che non vogliono sottostare alla tirannia o non sono più frenate dalla pacifica predicazione del clero che la ribellione violenta”. Già il grande teologo S. Tommaso d’Aquino nella “Summa Teologica” aveva sentenziato: “Quando l’abuso dell’autorità contro la società è certo, gravissimo, permanente, quando sono esauriti ed inutili i mezzi pacifici per far rinsavire il tiranno, allora la resistenza attiva e armata non è ribellione, ma difesa lecita e legittima”, e noi potremmo aggiungere “doverosa”, giacché nel caso del Messico era in ballo la fede, e la fede non solo propria, ma anche dei propri figli e delle generazioni future.
Le prime rivolte locali della gente furono in realtà scoppi improvvisi della folla in difesa dei parroci o delle Chiese, come quando per esempio il generale Ortiz aveva inviato i suoi soldati ad arrestare i sacerdoti di Zacatecas e il sollevamento della folla glielo aveva impedito, o come quando a Cocula, la reazione della folla si era opposta alla commissione statale che cercava di impossessarsi della Chiesa del paese, linciando anche un giudice o ancora come quando il 3 agosto veniva attaccato il Santuario della Madonna di Guadalupe e 400 fedeli ne respingevano il primo attacco.
La ribellione però, grazie anche al lavoro indefesso della Lega per la libertà religiosa, prese pian piano consistenza e organizzazione assumendo i toni di un vera e propria offensiva militare.
L’origine della guerra armata è legata in qualche modo all’assassinio di Don Luigi Batis, avvenuto una quindicina di giorni dalla promulgazione della legge Calles. Don Batis, la sera del 14 agosto del 1926, aveva raccolto attorno al suo pianoforte un gruppetto esimio di giovani al fine di insegnar loro una canzone liturgica, quando i federali vi avevano fatto il loro improvviso ingresso sicuri di coglierlo in fallo. I soldati inviati dal governo perlustrarono tutta la casa, togliendo persino l’intonaco dai muri, nella ricerca furibonda di qualche foglietto che compromettesse il parroco, ma non trovando niente decisero di arrestarlo ugualmente. Chiuso con i suoi tre giovani in cantina venne torturato per tutta la notte. La mattina tutti e quattro vennero fatti salire su un carro e condotti alla fucilazione. Il popolo tentò allora di liberarli, ma i soldati aprirono il fuoco sulla folla. Don Batis chiese allora pietà per i tre giovani innocenti esclamando: “Per amore di Dio non fate male a questi giovani. Pensate che Lara e Roldan sono l’unico sostegno delle loro vecchie madri, e Manuel Morales ha moglie e tre figli”, ma essi stessi espressero subito il desiderio di morire martiri. Manuel Morales aggiunse anche: “I miei figli hanno un altro Padre nel Cielo. Io muoio, ma Iddio non muore”. L’ex colonnello dell’esercito Pedro Quintanar, nel frattempo, aveva radunato un gruppo di uomini armati allo scopo di tentare la liberazione di Don Batis con la forza, ma arrivò ad esecuzione già avvenuta. Allora occupò la città di Chalchihuites, impadronendosi delle casse municipali e decretò l’iniziò della ribellione armata. Subito si unì a lui anche il generale Aurelio Acevedo, e dopo di lui molti altri. Nello stato di Jalisco iniziava così la rivolta al grido di “Viva Cristo Re”.
Lo stato di Guanajuato non fu da meno. Il sindaco di Penjamo Luigi Navarro Origel terziario francescano, padre di cinque figli, e fervente propagatore dell’adorazione Eucaristica notturna, si poneva anch’egli a capo di un esercito. Cattolico tutto di un pezzo Origel aveva dato vita nel suo paese all’Ordine dei Cavalieri di Colombo, e a molte altre associazioni cattoliche. Si vantava di 4 cose: servire ogni giorno la Messa, ricevere la Comunione, fare la visita Eucaristica e recitare il Santo Rosario. Si era impegnato dapprima nella resistenza passiva al governo per poi passare a quella armata. Diceva: “Bisogna lavare i crimini della Patria col nostro sangue, ed io devo lasciare un nome onorato ai miei figli. Dio mio, fammi un Martire”. Agli uomini che lo avevano seguito in questa nobile causa ogni sera faceva recitare ad alta voce il Rosario, ed egli soleva firmarsi “soldato di Maria”. Ogni volta che il suo esercito conquistava un nuovo presidio, la Chiesa del paese veniva riaperta e la Messa ricelebrata tra il fervore di tutti. Un giorno scontratosi con i callisti in numero molto più elevato, si sacrificò per permettere la fuga ai suoi soldati. Coprendo loro le spalle col fuoco insieme a un piccolo gruppetto di compagni e tenendosi dietro le rocce, continuò a sparare finché venne colpito. Al fratello che lo soccorreva dava un ultimo bacio e quindi si spegneva con le ultime parole “Viva Cristo Re”. I suoi soldati accolsero la sua salma cantando il Te Deum come aveva lui stesso chiesto e desiderato.
I rappresentati della Lega nazionale in difesa della libertà religiosa si incontrarono allora per giudicare l’opportunità di un’azione armata e il 30 novembre proponeva ai Vescovi i seguenti punti: non condannare il movimento armato, sostenere un’unità di azione, formare una coscienza collettiva che approvasse la resistenza, nominare cappellani militari e patrocinare la raccolta di fondi per la lotta armata. I vescovi accolsero i primi 3 punti rifiutando gli altri. Riconoscevano legittima la resistenza dei cittadini nel difendere i loro diritti vitali, in quanto la via pacifica si era mostrata inutile, ma d’altra parte si astenevano dall’appoggiare personalmente la rivolta. Il vescovo Diaz y Berreto che unico tra i vescovi si espresse contrario alla resistenza armata subì una severa reprimenda da parte degli altri vescovi e fu obbligato a ritrattare. La commissione dei Vescovi ricordò che i fedeli lottavano e si sacrificavano per un nobile ideale e un giusto dovere.
Nel gennaio del 1927 insorse anche Jalisco e la guerra poté dirsi generalizzata. I combattenti marciavano in gruppi di centinaia cantando l’inno: “Tropas de Maria singan la bandera no desmaye nadie vamos a la guerra!”. I rivoltosi conquistarono villaggio per villaggio tutta la zona montuosa de Los Altos de Jalisco, diffondendo la rivolta ovunque. Il primo villaggio era stato San Julian insorto con appena 30 uomini armati, a cui si era aggiunto poi Victoriano Ramirez detto “El Catorce”, soprannominato così da quando, inseguito da 14 federali, era riuscito ad ucciderli tutti da solo. I ribelli, comprendenti contadini e allevatori, si mettevano sotto il comando di ex generali ed esperti nel campo della guerra. Tra i comandanti Cristeros più abili e decisi troviamo due sacerdoti: José Reges Vega e Aristeo Pedroza. Uno di discussa rettitudine e alquanto spietato, l’altro retto e integerrimo. Non c’è da meravigliarsi di questo, perché non esiste realtà umana giusta e santa che non abbia purtroppo a doversi confrontare con la libertà umana ed il peccato. La maggioranza però si batteva sinceramente per la fede, con coscienza e giustizia. Lo si capisce dallo stesso rito di accoglienza nell’esercito. La recluta doveva dichiarare sul crocifisso: “Io giuro solennemente per Cristo Re, per la SS. Vergine di Guadalupe, Regina del Messico, e per la salvezza della mia anima. Primo: mantenere assoluto segreto su tutto quello che può compromettere la santa causa che abbraccio. Secondo: difendere con le armi in mano la completa libertà religiosa nel Messico. Se osserverò questo giuramento, che Dio mi premi; se mancherò che Dio mi punisca”. Quindi doveva baciare la bandiera della Vergine di Guadalupe, dopodiché riceveva dal sacerdote l’imposizione del Crocifisso o dell’immagine della Madonna di Guadalupe (a seconda del grado militare), che l’avrebbe accompagnato nelle battaglie. Nel campo veniva celebrata quotidianamente la Messa, si facevano le processioni Eucaristiche, si recitava il Rosario e dove era possibile si stabiliva anche l’adorazione Eucaristica a turni di 15 minuti l’uno. Il loro saluto era: “Arrivederci in Paradiso”. I Cristeros di Jalisco dopo il Rosario recitavano insieme la preghiera composta dal martire Anacleto Gonzales: “Gesù misericordioso! I miei peccati sono più numerosi delle gocce di sangue che versasti per me. Non merito di appartenere all’esercito che difende i diritti della Tua Chiesa e che lotta per Te. Vorrei non aver mai peccato in modo tale che la mia vita sia un’offerta gradevole ai tuoi occhi. Lavami dalle mie iniquità e purificami dai miei peccati. Per la Tua santa Croce, per la mia Santissima Madre di Guadalupe, perdonami! Non ho saputo fare penitenza dei miei peccati; per questo motivo voglio ricevere la morte come una punizione meritata per essi. Non voglio combattere, né vivere né morire, se non per te e per la tua Chiesa. Madre Santa di Guadalupe, accompagna nella sua agonia questo povero peccatore. Concedimi che il mio ultimo grido sulla terra ed il mio primo cantico nel Cielo sia “Viva Cristo Re”!” In questo esercito entravano a far parte fra tanti sacrifici, tra il caldo cocente di giorno e il freddo pungente e gelido della notte, a volte senz’acqua né cibo, alla quota di tremila-quattromila metri, vecchi e giovani e persino donne. Armando Tellez Vargas, uno dei fondatori della Lega, abile oratore e scrittore, non abituato a questi disagi a motivo della sua costituzione delicata soleva incoraggiarsi con la giaculatoria: “Sempre avanti per Cristo Re”. Il vecchio Gabino Alcazar, all’età di ottant’anni prese in mano le armi esclamando: “Ho ancora poco tempo da vivere, e perché non posso spenderlo per Cristo Re? Tutti noi siamo suoi sudditi, ed abbiamo gli stessi doveri” e morì poco tempo dopo in battaglia gridando “Viva Cristo Re”. Il Beato José Sanchez, chiamato dai soldati Tarcisio per l’amore all’Eucaristia, invece, all’età di tredici anni chiese di essere ammesso come i suoi fratelli nell’esercito cristiano pregando il generale: “posso aiutare i soldati a togliersi gli speroni o a preparare le cavalcature; posso cuocere i fagioli, curare i cavalli o ingrassare le armi”. Condotto infine in battaglia come porta bandiera offrì il proprio cavallo al generale, che nel furore della battaglia ne era rimasto privo, affinché si mettesse in salvo. Quindi, coprendogli le spalle con il fuoco, sparò fino all’ultima cartuccia. Catturato vivo dai federali, venne interrogato allo scopo di estorcergli informazioni sui compagni: prima con promesse e lusinghe e poi con la violenza, ma egli si rifiutò sempre di parlare. Gli venne tagliata la pianta del piede e passata nel sale. Visto che tutto era inutile venne fatto camminare sul selciato fino al cimitero, tra continue percosse e con i piedi nudi tutti sanguinanti, mentre cantava “Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera”. Arrivati al luogo del supplizio, venne colpito con delle pugnalate, quindi stufi di sentirlo gridare: “Viva Cristo Re! Viva la Madonna di Guadalupe!”, venne finito con una revolverata alla testa. Opera importantissima fu svolta poi dalle Brigate femminili Santa Giovanna D’Arco che formarono una rete di distribuzione per provvedere alle munizioni, alle medicine, al cibo di cui i Cristeros avevano bisogno. Si trattava di un compito rischiosissimo che metteva a repentaglio la loro vita. Queste ragazze intrepide raggiunsero il numero di 17000. Tra esse, ricordiamo Faustina Alemida, Sara Flores e Angela Gutierrez, che morirono cantando “Andrò a vederla un dì”, mentre portavano le munizioni ai cristeros. Chi può enumerare l’eroismo delle donne messicane di quel tempo! Madri che erano disposte a perdere il marito e i figli per un nobile ideale, che si radunavano nelle case per pregare, che si flagellavano aspramente e si coronavano con spine per sostenere con il sacrificio i combattenti e ottenere per loro grazie celesti. La madre del giovane martire Gioacchino Silva fucilato con la corona del Rosario in mano, appresa la morte del figlio esclamò: “Signore, eccovi tutti i miei dodici figli per il vostro sicuro trionfo”. Così la moglie dell’avvocato Anacleto Gonzales Flores, indicando il cadavere sfigurato del marito al figlio le disse: “Guarda, questo è tuo padre. È morto in difesa della fede, promettimi sul suo corpo che farai lo stesso quando sarai più grande, se Dio te lo chiederà”. Alcune donne parteciparono persino attivamente alla battaglia, come la signorina Maria Caires che comandò un battaglione formato da donne per liberare l’Arcivescovo dal carcere, sfidando i soldati e disarmandoli. Infine catturata venne mutilata alle mani e i piedi mentre ella continuava a gridare fino alla morte “Viva Cristo Re”.
I primi mesi di lotta furono per lo più indirizzati a presidi isolati e ad azioni locali, da cui i Cristeros uscivano vittoriosi. Avevano però ancora da scontrarsi con il vero e proprio esercito federale. Quest’ultimo, dotato di mezzi maggiori e migliori, riforniti allo scopo dagli USA, passava bruciando ogni terreno e deportando villaggi interi, saccheggiando e commettendo ogni sorta di violenza, in modo tale da togliere agli insorti i mezzi per rifornirsi e nuove reclute al loro esercito, dal momento che gli uomini si vedevano costretti a rimanere nelle proprie abitazioni per salvare le proprie famiglie.
L’11 gennaio del 1927 si ebbe la prima vittoria vera e propria in campo aperto. 1200 Cristeros riuscirono sotto il comando di Porfirio Mallorquin Valente Acevedo a sbaragliare 2000 federali. Seguì in febbraio un’altra vittoria a San Francisco del Rincòn. In marzo i Cristeros si incontrarono senza prevederlo con il 78° reggimento di cavalleria, comandato dal generale Rodriguez. La battaglia durò tutto il giorno. I Cristeros comandati da El Catorce resistettero fino all’arrivo dei soccorsi guidati da Hernandez che colpendo i federali alle spalle riportarono una schiacciante vittoria su quello che era uno dei reparti migliori dell’esercito federale. Ormai i Cristeros erano saliti a 12000 e i federali erano in difficoltà. Proprio allora però si verificò un fatto che squalificò moralmente i cristeros agli occhi di molti cattolici e degli stessi Pastori. Padre Vegas, di cui si era già parlato prima, in aprile dopo aver appreso il martirio di Anacleto Gonzales, furibondo prese all’assalto un treno pieno di denaro. Nello scontro il fratello venne ucciso e P. Vegas ancora più esacerbato e irato fece cospargere di benzina il treno con sopra ancora 51 passeggeri innocenti e gli diede fuoco. A questo fatto si erano aggiunti altri problemi morali all’interno dell’esercito cristero, come rappresaglie, uccisioni dei prigionieri, uccisioni anche di quei civili che ostacolavano la strada. Inoltre l’aumento crescente delle sofferenze nel popolo, schiacciato dal governo sempre più inferocito, portarono l’episcopato a dividersi riguardo al giudizio morale della resistenza cristera. Alcuni vescovi finirono per condannare apertamente il ricorso alle armi e molti sacerdoti si tennero contrari alla rivolta. Tutto questo ebbe effetti chiaramente deleteri sulla gran parte dell’esercito cristero che combatteva nient’altro che per la fede e in piena fedeltà alla Chiesa. Tuttavia le continue vittorie di Victoriano Ramirez (El Catorce) tanto temuto dall’esercito federale e che poteva dirsi più un bandito che un vero cristero, spinsero la Lega per la libertà religiosa a convincersi di una possibilità di riuscita e anche della necessità di continuare lo scontro. Per dare unità e forza al movimento venne allora ingaggiato un ex generale dell’esercito, Enrique Gorostieta y Velarde, abile e veterano in fatto di guerre civili. Sebbene massone di 33 grado Gorostieta accettò la proposta sia per motivi di ambizione personale e di rivincita nei confronti di Calles che lo aveva messo da parte, sia per lo stipendio elevato che gli era stato proposto e cioè il doppio di un generale federale (3000 pesos al mese). Il suo reclutaggio tra i Cristeros fu veramente provvidenziale perché seppe dare al movimento non solo unità, ma soprattutto disciplina e ordine morale.
Alla fine del 1927 l’esercito Cristero salì a 25000 unità, di cui 18000 bene inquadrati e gli altri dispersi in bande. Nel febbraio del 1928 la guerriglia ormai era accesa ovunque e il governo non era più in grado di fermarla. In marzo padre Aristeo Pedroza con 300 uomini attaccò forze due volte superiori e le sbaragliò. Ciò che si stava verificando sapeva del miracoloso, tanto più che le perdite che si registrarono nelle battaglie erano 1 Cristeros su 50 o addirittura 100 federali. Avvennero anche veri e propri prodigi celesti, come la moltiplicazione del cibo per l’esercito affamato, o l’elevazione prodigiosa dell’Ostia durante la celebrazione della Messa che produsse la conversione del generale federale e dei suoi uomini già pronti a sparare sui Cristeros inermi e ignari dell’imboscata. Una spia cristera catturata si sentì dire dai federali: “Essi sono stregoni, e chi li comanda è un generale molto valoroso su un cavallo bianco ed è accompagnato da una donna. Quando abbiamo aperto il fuoco contro di loro, questo non ha avuto alcun effetto, e quando si avvicinavano a noi non eravamo in grado di fare nulla per respingerli. Questi maledetti Cristeros governano le foschie per nascondervisi dentro”. La spia allora rispose: “Non ci sono cavalli bianchi e non c’è nessuna donna accanto al nostro generale. In verità noi abbiamo la piena fiducia che la Beata Vergine ci accompagni sempre in battaglia assieme a san Giacomo, noi non possiamo vederla con i nostri occhi soltanto perché non ne siamo degni”.
In luglio Obregon, l’ultimo grande generale della Rivoluzione, venne assassinato da un giovane di nome José de Leon Toral. Per comprendere il suo gesto conviene prima riportare quanto sintetizza lo storico Zuliani sulla dottrina di S. Tommaso d’Aquino e del teologo Suarez al riguardo: “contro il tiranno ingiusto e aggressore il diritto di difesa della società oppressa, depauperata, assassinata nella vita, nelle sostanze a nella libertà, compete ad ogni singolo membro”. Obregon era stato appena eletto presidente e aveva già dato il suo discorso di neo eletto dichiarando ai microfoni della radio: “Quando una formica ci morde, noi non andiamo a cercare quella che ci ha morso, ma prendiamo un secchio di acqua bollente, ed uccidiamo tutte le formiche che troviamo, e quelle che tentano di fuggire le pestiamo coi piedi. Così farò dei cattolici, anche se questi rigori importassero la distruzione della razza messicana, e facessero un deserto del Messico”. Ora, mentre stava lautamente banchettando nel ristorante della capitale “La Bombilla” con i suoi al ristorante sotto lo striscione “Obregon padre della Patria”, Toral, deciso a sacrificare la sua vita per ottenere al popolo la fine delle persecuzioni, si presentò al convito disegnando schizzi e caricature, guadagnandosi sempre più la stima dei convitati. Dando uno schizzo simpatico di Obregon venne invitato a presentarglielo, e appena gli fu dietro le spalle estrasse di nascosto la pistola automatica colpendolo con 4 colpi alla testa. Gli invitati presi dalla confusione e anche saturi di vino iniziarono a spararsi a vicenda o a fuggire, mentre il giovane Toral non si mosse dal suo posto. Non tentò la fuga, ne utilizzò gli altri due colpi ancora a disposizione, ma aspettò intrepido l’arresto. Interrogato immediatamente da Calles riguardo a chi lo avesse spinto a questa azione, dichiarò: “giuro sulla mia anima che io ho agito da solo. Io ho fatto questo perché Cristo regni nel Messico”. Per cercare di farlo confessare e affermare che era stata la Chiesa a inviarlo, venne denudato e legato con una cordicella ai pollici delle mani e dei piedi, mentre gli venivano dati scossoni facendolo ciondolare nel vuoto e slogandogli le dita. Temendo che morisse nelle torture gli aguzzini gli misuravano di tanto in tanto il polso. Dopo avergli dato cinque minuti di tregua venne appeso al soffitto per le ascelle. Un poliziotto gli si attacco di peso slogandole tutte le giunture. Non ottenendo niente gli promisero la commutazione della pena della fucilazione con la prigione, al patto che avesse confessato il mandante, ma egli dichiarò: “non è la morte che temo, anzi è la fucilazione che desidero. Possa il mio sangue essere l’ultimo. Sappiate però che ho agito da solo e non ci sono complici”. Dichiarò anche: “i miei fratelli stavano combattendo nelle montagne privi di tutto, contro un nemico feroce e ben agguerrito. E qui in città la solita vita della crapula e dell’orgia di pochi in contrasto con le sofferenze dei molti. Il pericolo per la Religione diveniva sempre più grave; i Crociati erano isolati; stavano morendo di fame e di sete. Allora presi anch’io il mio posto di combattimento. Mi disposi al sacrificio desiderando che fosse l’ultimo sangue versato. Vidi la mia sposa vedova e i miei figli orfani; ma vidi anche altre vedove e altri orfani dei miei compagni crociati; e allora preferii la morte di Obregon e la mia morte. Per finire la guerra ho ucciso il capo nemico”. Gli ultimi giorni in carcere li passò in preghiera come scrisse egli stesso: “io passo il tempo, a fare meditazione sul Santo Rosario… Di solito recito il Rosario ravvivando la mia fede, fino quasi a sentire la dolce presenza di Maria SS.ma, di Gesù e del mio Angelo custode”. Morì fucilato offrendo la sua vita per i suoi stessi persecutori e per il Messico.
La morte di Obregon in effetti segnò una grande confusione in Messico. Calles ormai si trovava come l’unico vero leader della rivoluzione messicana.
Nel 1929 i cristeros contavano ormai 50000 unità. In marzo padre Vegas in modo magistrale conduceva con 3000 uomini una delle battaglie più importanti della storia cristera nella città di Tepatitlàn, restandone però ferito e ucciso. In effetti, non tutte le azioni dell’esercito cristero andavano al meglio, per il fatto che molti generali sentendosi in dovere di combattere in testa al loro esercito, rimanevano così linciati e uccisi nel furore delle battaglie. In quell’anno, tra l’altro, Victoriano Ramirez entrava anche in dissidio con un altro generale, e il famoso “Catorce” veniva condannato per motivi disciplinari dal padre Aristeo Pedroza e fucilato.
Il governo comunque era in evidente difficoltà nel fronteggiare la lotta, e per questo cercò subito, per interesse anche dell’ambasciatore statunitense Morrow, di venire in accordo con la Chiesa. Il 1 maggio 1929 il nuovo presidente Portes Gil, guidato dal suo maestro Calles, dichiarò in un intervista che il culto cattolico avrebbe potuto riprendere in Messico al patto che la Chiesa garantiva il rispetto delle leggi dello Stato. Si avviarono allora le trattative del governo con l’Episcopato, anche se per i Cristeros questo appariva come tradimento o per lo meno un pericolo. Gorostieta protestò: “Ogni volta che la stampa ci dice che un vescovo fa da parlamentare coi “callisti”, sentiamo come uno schiaffo in piena faccia, tanto doloroso in quanto viene da coloro nei quali speriamo di trovare conforto, una parola che dia respiro alla nostra lotta”. D’altra parte però l’episcopato cercava il modo di porre fine ad una guerra di cui si conosceva l’inizio ma non la fine, ne il prezzo che si sarebbe dovuto versare per ultimarla. D’altra parte quali garanzie poteva avere la Chiesa in caso di vittoria da parte dell’esercito cristero che non sarebbe più salito al governo nessun altro massone approfittatore della situazione?
Nel frattempo, il 2 giugno, il supremo generale cristero Gorostieta venne colto di sorpresa da un gruppo di federali e circondato. Gorostieta accortosene in tempo tentò la fuga, ma il cavallo venne abbattuto. Tornò allora di corsa nell’haiacenda stringendo per l’ultima volta le mani al crocifisso che teneva sul petto. Lo contemplò, pregando per l’ultima volta. Tentò allora una seconda fuga con un altro cavallo, ma una pallottola lo buttò di sella. Raggiunto da un soldato federale venne finito a revolverate mentre cercava di rialzarsi. Dopo aver recuperato la fede, cadeva così il generale supremo dei cristeros. Quello stesso giorno il delegato apostolico Ruiz y Flores scriveva al Segretario generale della Lega che la lotta armata doveva cessare perché provocava più danni di quelli che voleva evitare. La Lega però si rifiutò di obbedire. La richiesta dell’episcopato non solo buttava all’aria un piano nel momento più favorevole e vicino alla vittoria, ma metteva anche i cristeros in condizione di essere perseguitati e uccisi. Le trattative con il governo, vennero portate avanti da Portes Gil con l’astuzia e l’inganno. I due plenipotenziari dell’episcopato, Mons. Flores e il suo segretario Barreto, furono separati da tutti i contatti con l’esterno e con il resto dell’episcopato. Chiusi prima in un vagone ferroviario, poi nella casa di un banchiere, finirono il 21 giugno per firmare il concordato. La legislazione antiecclesiastica sarebbe rimasta sulla carta delle leggi di stato, ma il governo si impegnava a non applicarla. La libertà di insegnamento di religione era garantita all’interno delle Chiese (non nelle scuole), la Chiesa poteva continuare a conservare i propri beni e si assicurava ad essa il diritto di petizione al governo per cambiare la legge vigente. Lo stato prometteva inoltre l’armistizio con i cristeros, ma solo a voce. Il 27 giugno le chiese vennero riaperte, ma per i cristeros iniziò l’epoca della caccia all’uomo. Decine di capi cristeros vennero catturati e fucilati o impiccati ai pali del telegrafo. Su 50000 cristeros solo 14000 consegnarono le armi perché gli altri sapevano che ne avrebbero avuto bisogno per difendersi. Tuttavia nessuno di loro continuò la battaglia o si diede al brigantaggio come in genere avviene in questi casi, a dimostrazione della lealtà e della fedeltà all’ideale per il quale erano scesi in battaglia, ossia la fede. In agosto il generale Jesus Degollado che era succeduto a Gorostieta diffuse il seguente messaggio: “La Guardia nazionale scompare, non tanto perché vinta dai nostri nemici, quanto perché abbandonata, in realtà, da coloro che dovevano beneficiare, per primi, del frutto prezioso dei suoi sacrifici e della sua abnegazione. Ave Cristo! Per te andiamo verso l’umiliazione, l’esilio, forse a una morte gloriosa, vittime dei nostri nemici, con il nostro amore più fervente, ti salutiamo e ti acclamiamo ancora una volta, Re della patria nostra. Viva Cristo Re! Viva Santa Maria di Guadalupe! Dio, Patria e Libertà!”. Quando Pio XI lesse il testo delle arreglos, ossia degli accordi tra episcopato e governo, scoppio in lacrime al pensiero di quello che i cristeros avrebbero dovuto subire da un governo menzognero e farabutto. “L’ho veduto piangere” ha detto il Cardinal Tommaso Pio Boggiani al vicepresidente della Lega. Il pianto del papa fu un vero presagio di rovina perché negli anni seguenti furono uccisi 1500 cristeros. Continuarono anche gli attentati dinamitardi e le persecuzioni verso il clero, con l’uccisione di parecchi sacerdoti. Nel 1932 il papa fece nuovamente riudire la sua voce di condanna contro la violazione dei patti con l’enciclica “Acerbi animi”. Due anni dopo Calles reintroduceva l’applicazione dell’art. 3 della Costituzione sulla libertà di educazione dicendo: “Dobbiamo impadronirci delle menti dei bambini e della gioventù perché essi appartengono alla Rivoluzione”. Canabal con le sue “camice rosse” assaliva in dicembre i fedeli che uscivano dalla chiesa di Coyoacan uccidendone cinque. Canabal venne esiliato, ma lungo il paese le persecuzioni continuarono con l’assassinio di un centinaio di maestri cristiani. Nonostante la scomunica posta dai Vescovi, preoccupati di non creare nuovamente situazioni tragiche, a chiunque avrebbe preso in mano le armi, 7500 Cristeros esacerbati ricostituivano l’Esercito di liberazione popolare, dando inizio alla cosiddetta “Secunda”. Calles d’altronde cercava proprio di conservare il potere con queste situazioni d’emergenza, ma anche per lui scoccò il tempo della giustizia e dovette di lì a poco prendere la via dell’esilio con il vecchio capo della CROM, Luis Morones, mentre Lazaro Cardenas assumeva i pieni poteri del governo messicano. Iniziava per la Chiesa un periodo più vivibile, ma non certo privo di soprusi e violenze. Basti pensare all’assassinio del Beato Pedro Maldonado avvenuto nel 1937 nella presidenza municipale del suo paese per opera della polizia. Solo nel 1940 con l’elezione di Manuel Avila Camacho, il primo cattolico a salire al governo dopo la serie interminabile di massoni e nemici della Chiesa, la Chiesa poteva trarre un sospiro di sollievo. Durante il suo mandato anche gli ultimi cristeros deposero le armi e la “Cristiada” poteva dirsi ormai conclusa per sempre.
Le leggi discriminatorie nei confronti dei cristiani, come il divieto di pubbliche manifestazioni di culto, rimasero in vigore fino al 1992 quando fu modificata in parte la Costituzione. C’è da sperare che il sangue versato in Messico possa ora espandere sulla terra grazie di fedeltà e santità per tutta l’America Latina e il mondo e dare ai molti cristiani all’acqua di rose una testimonianza di generosità e forza.
Fonte: Settimanale di p. Pio
I BEATI
Il Beato Josè Luis Sanchez del Rio e la guerra cristera
Nato il 28 marzo 1913 a Sahuayo, Michoacán, José era il terzo dei quattro figli di Macario Sánchez Sánchez e María del Río.
Quando scoppiò "la Cristiada", i suoi due fratelli maggiori, Macario e Miguel, si schierarono in difesa della libertà religiosa nella regione di Sahuayo, mentre José non fu ammesso per la sua giovane età.
Durante un pellegrinaggio compiuto da José sulla tomba di Anacleto González, anch'egli beatificato questa domenica, chiese per sua intercessione la grazia del martirio. In seguito continuò a cercare di schierarsi con le forze "cristeras". Sua madre si opponeva, ma José le rispose: "Mamma, mai come ora è facile guadagnarsi il Cielo".
Si recò a Cotija - nel suo Stato natale - per incontrare il generale "cristero" Prudencio Mendoza. Gli disse che se non aveva abbastanza forza per caricare il fucile poteva comunque aiutare i soldati a prepararsi, lubrificare le armi, preparare i pasti e prendersi cura dei cavalli. Il generale lo accettò.
Oltre a servire la truppa, José ne divenne presto il trombettiere e portabandiera. In seguito, poiché il Governo perseguitava i familiari dei "cristeros", al fine di proteggere la sua famiglia che era conosciuta e benestante, fece sì che tutti i suoi compagni lo chiamassero José Luis.
In uno scontro con i federali, il 6 febbraio 1928, fu quasi arrestato il generale Guízar Morfín, al quale uccisero il cavallo; José, però, scese dal suo e glielo offrì dicendo: "Mio generale, prenda lei il mio cavallo e si salvi; lei è più necessario e serve di più alla causa di me". Il generale riuscì a fuggire, ma i federali arrestarono José e lo portarono nel carcere di Cotija, dove scrisse a sua madre, che in qualche modo riuscì a ricevere la lettera.
Il giorno dopo, il 7 febbraio, fu trasferito a Sahuayo e messo a disposizione del deputato federale Rafael Picazo Sánchez, che gli assegnò come carcere la parrocchia.
Picazo gli presentò varie possibilità di mettersi in salvo: gli offrì del denaro perché se ne andasse all'estero, e poi propose di mandarlo al Collegio Militare. José rifiutò senza esitazioni.
Picazo sapeva che i Sánchez del Río erano benestanti perché era stato loro vicino, per cui chiese loro cinquemila pesos in oro per riscattare José. Macario Sánchez cercò subito di racimolare la somma, ma quando José lo seppe chiese alla famiglia di non pagare il riscatto perché aveva già offerto la propria vita a Dio.
Quella prima notte di prigione nella parrocchia vide come il tempio veniva profanato: i soldati si macchiavano di peccati di ogni sorta, la chiesa fungeva da stalla per il cavallo di Picazo e il presbiterio era il recinto per i suoi galli da combattimento. José riuscì a liberarsi, uccise i galli, accecò il cavallo e tornò nel suo cantuccio.
Il giorno successivo Picazo affrontò José, che gli rispose: "La casa di Dio è un luogo in cui venire a pregare, non un rifugio di animali". Dopo essere stato minacciato, José rispose: "Sono disposto a tutto. Mi fucili, perché io sia subito davanti a Nostro Signore e gli chieda di confonderla!". Di fronte a questa risposta, uno degli aiutanti colpì José alla bocca rompendogli i denti.
Venerdì 10 febbraio venne trasferito al Mesón del Refugio, dove gli annunciarono che sarebbe stato ucciso. Scrisse a sua zia Magdalena perché gli portasse il Viatico. Alle undici di sera gli spellarono i piedi con un coltello, lo portarono via e lo costrinsero a camminare fino al cimitero. I vicini lo sentivano gridare lungo la strada "Viva Cristo Re!".
Una volta nel cimitero, il capo della scorta ordinò di pugnalarlo. Ad ogni ferita José continuava a gridare "Viva Cristo Re!". Per crudeltà gli chiesero se voleva inviare un messaggio a suo padre. José rispose: "Ci vedremo in Cielo! Viva Cristo Re! Viva Santa Maria di Guadalupe!". Per farlo tacere, il capo tirò fuori la pistola e gli sparò in testa. José cadde in una pozza di sangue. Erano le undici e mezza di sera di venerdì 10 febbraio 1928.
Una delle testimonianze del martirio è la lettera che José inviò a sua madre il 6 febbraio, in cui scrisse: "Mia cara mamma: oggi sono stato fatto prigioniero in combattimento. Credo che morirò, ma non importa, mamma. Rassegnati alla volontà di Dio; muoio molto contento perché muoio al fianco di Nostro Signore. Non ti affliggere per la mia morte, che è ciò che mi mortifica. Dì ai miei fratelli di seguire l'esempio del più piccolo, e tu fai la volontà del nostro Dio. Sii forte e mandami la tua benedizione insieme a quella di mio padre. Salutami tutti per l'ultima volta e ricevi il cuore di tuo figlio che ti vuole tanto bene e desiderava vederti prima di morire".
Beato José Luís Sánchez del Rio
di Felipe Lecaros Concha
Correva l'anno 1926 e, se non fosse stato per la crescente ostilità del governo di Plutarco Elías Calles contro la Chiesa, si sarebbe detto, che nello Stato di Michoacán, in Messico, il tempo si fosse fermato. Questa zona agricola, situata tra grandi montagne e laghi, è stata segnata dalla infaticabile opera di evangelizzazione dei missionari francescani, agostiniani e di altri ordini religiosi cosa che, alleata col temperamento rude dei suoi abitanti, avvezzi all'inclemenza del clima, e alla relativa lontananza dalle grandi città, aveva dato vita a una delle regioni più cattoliche del Messico e forse dell'America.
Il Bajío - cioè l'insieme formato dagli Stati di Jalisco, Aguas Calientes, Guanajuato, Querétaroy e Michoacán - è la zona che più martiri ha dato alla Chiesa Cattolica nell'America del secolo XX e rimane ancor oggi un vivaio di vocazioni religiose.
Uno di questi esempi di santità è quello che ora vi voglio raccontare.
"E anche i bambini possono essere martiri?"
Sahuayo era un piccolo villaggio dello stato di Michoacán. Dopo il lavoro quotidiano, i suoi abitanti si riunivano all'ora dell'Angelus nella Chiesa di San Giacomo Apostolo, per ringraziare la buonissima Madre di Guadalupe per le grazie e i favori che aveva loro concesso nella giornata. Insieme al loro amato parroco, recitavano il rosario senza mai dimenticarsi di pregare per il Messico, affinché cessasse quanto prima l'impietosa persecuzione del governo contro i cattolici.
Tra tutti i bambini della parrocchia, uno si distingueva per la devozione con cui pregava. Era José Luis Sánchez del Río, di appena 13 anni, birichino come tutti quelli della sua età; egli aveva in mente un'idea fissa. Idea che gli era venuta una notte d'inverno quando il parroco, invitato a cena dai suoi genitori, aveva raccontato che la persecuzione religiosa stava portando molti martiri messicani in Cielo.
- Come può succedere questo, padre? - Sì, mio piccolo José, sono cattolici che, davanti all'ordine di rinnegare la nostra religione, preferiscono dare la propria vita e morire fucilati. Ma il Signore li riceve vicino alla nostra Madre di Guadalupe, in Cielo.
- E anche i bambini possono essere martiri, padre? - Ecco... insomma... se Dio così volesse, certo, lo possono essere, come i Santi Innocenti che celebriamo nella nostra parrocchia durante il mese di dicembre. José Luis sentì nel suo cuore un ardore che non era altro se non una grazia di Dio, una preparazione per i gravi avvenimenti che si sarebbero svolti, poco tempo dopo, nella tranquilla Sahuayo.
Mai è stato così facile guadagnarsi il Cielo!
In effetti, nell'agosto del 1926 giunse nel piccolo villaggio la notizia che era proibito il culto cattolico pubblico. La famiglia Sanchez Del Rio si riunì costernata e, mentre i figli più piccoli si stavano preparando ad andare ad aiutare il loro papà nei lavori agricoli, Miguel, il più vecchio, decise di prendere le armi, con dei suoi amici, i fratelli Gálvez, per difendere Cristo e la sua Chiesa.
Vedendo questo, José chiese il permesso ai suoi genitori di arruolarsi anche lui nell'Esercito "Cristiano", che si era formato al comando del generale Prudêncio Mendoza. Sua madre, tuttavia, si oppose. - Figlio mio, un ragazzo della tua età va più ad intralciare che ad aiutare l'esercito. - Ma, mamma, non è mai stato tanto facile guadagnarsi il Cielo come in questo momento! Non voglio perdere quest'occasione.
Udendo questa risposta, sua madre gli diede il permesso, ma pose come condizione che egli stesso scrivesse al generale Prudenzio Mendoza, chiedendo se lo accettava. La risposta di costui fu negativa. Senza perdersi di coraggio, José scrisse una nuova lettera, chiedendo al generale di essere ricevuto, se non come combattente, almeno come soldato ausiliare della truppa: lui avrebbe potuto prendersi cura dei cavalli, cucinare e prestare altri servizi ai soldati.
Vedendo la grandezza d'animo e l'entusiasmo di quest'adolescente, il generale gli rispose che lo avrebbe accettato. Così, con la benedizione della sua mamma cattolica, egli partì per l'accampamento "cristiano", molto contento di poter lottare per Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe.
Combattente eroico
Nell'accampamento, in poco tempo, l'ultimogenito della famiglia Sanchez del Río conquistò l'affetto e la fiducia dei "cristiani", che lo soprannominarono Tarcisio. La sua allegria contagiava tutti, e fin dall'inizio egli ebbe l'incarico di guidare la truppa nella preghiera del rosario, alla fine di ogni giornata. Grazie al suo valore e buon comportamento, il generale gli affidò l'incarico di attaccante del distaccamento. Poco dopo, con la promozione a porta-bandiera, José Sánchez del Rio vedeva realizzarsi il suo più ardente desiderio: essere nel campo di battaglia, come soldato di Cristo.
Nel febbraio del 1928, un anno e cinque mesi dopo il suo inserimento nell'esercito "cristiano", ingaggiò un combattimento nelle vicinanze della città di Cotija. Dopo varie ore di accannita lotta, il giovane porta-bandiera vide il cavallo del generale cadere ucciso da un colpo di pallottola. Raggiunto il posto immediatamente, disse con risoluzione: - Generale, ecco il mio cavallo, si metta in salvo. Se io muoio, non si farà sentire la mia mancanza, ma se lei muore, sì.
Gli consegnò il suo cavallo, afferrò un fucile e combattè con coraggio. Quando cessarono i tiri, avanzò contro il nemico, baionetta in resta. Fu fatto prigioniero e condotto dal generale nemico, che lo rimproverò per il fatto di lottare contro il governo. - Generale, sappia che io sono caduto prigioniero, non perché mi sia arreso, ma perché sono terminate le mie pallottole, perció, se ne avessi avute di più , avrei continuato a lottare.
Prigioniero indomabile
Vedendo tanta decisione e ardore, il generale lo invitò ad unirsi alle truppe del governo, dicendogli: - Sei un ragazzino valoroso, vieni con noi e starai molto meglio che con i "cristiani". - Mai, mai! Preferisco morire! Mai mi unirò ai nemici di Cristo Re! Mi faccia fucilare! Il generale lo fece rinchiudere nel carcere di Cotija. In mezzo a poca luce, cattivo odore, e attorniato da delinquenti, riuscì a scrivere una lettera: Cotija, 6 febbraio 1928 Mia cara mamma, Sono caduto prigioniero durante il combattimento di oggi. Credo che sarò fucilato, ma non importa, mamma.
Ti devi rassegnare alla volontà di Dio. Non preoccuparti della mia morte, che è ciò che mi lascia inquieto; al contrario, di' ai miei due fratelli che seguano l'esempio dato dal loro fratello più piccolo. Tu devi fare la volontà di Dio, abbi forza e mandami la tua benedizione, insieme a quella di mio padre. Salutami tutti, per l'ultima volta. Ricevi il cuore di questo figlio che ti vuole tanto bene e che desiderava vederti prima di morire. - José Sánchez del Río.
Intanto, invece di essere fucilato il giorno dopo, come immaginava, fu portato, insieme ad un piccolo amico anche lui imprigionato di nome Lazzaro, alla chiesa di Sahuayo, che le truppe del generale Calles avevano trasformato in scuderie. La sacrestia era occupata dai galli da combattimento del deputato anticattolico Rafael Picazo, che lì realizzava frequentemente orge con i suoi amici.
Nel vedere la sua nuova prigione, José rimase indignato. Era la stessa chiesa che, poco tempo prima, egli frequentava con la sua famiglia per pregare l'angelus e il rosario. Era quella la medesima sacrestia dove lui era solito andare, dopo la messa, per chiedere ritagli di ostia al vecchio parroco. L'avevano trasformata in un antro di banditi! Quando si vide solo nella penombra, il giovane soldato del Cristo Re riuscì a sciogliere la corda che lo legava, si diresse alle gabbie dove stavano i galli da combattimento del deputato e gli tagliò il collo. Poi dormì serenamente.
Il giorno dopo, non appena venne a conoscenza dell'accaduto, il deputato Picazo corse alla sacrestiaprigione, dove, pieno di indignazione, interrogò il giovane prigioniero. "La casa di Dio è un luogo per pregare, non per far da deposito di animali", gli rispose costui. Pieno di collera, Picazo, lo minacciò di morte ma ricevette questa serena risposta: "Da quando ho preso le armi, sono disposto a tutto. Mi faccia fucilare!"
Una croce tracciata col proprio sangue
Il venerdì, giorno 10, verso le sei del pomeriggio, una scorta lo portò, di nuovo, alla caserma. Lì, saputa la sua condanna a morte, scrisse ad una delle sue zie, la quale era riuscita a portargli la Comunione di nascosto, l'ultima lettera della sua vita; Sahuayo, 10 febbraio Cara zia, Sono condannato a morte, alle otto e mezza di questa sera arriverà il momento che ho tanto desiderato. Ti ringrazio per tutto quanto tu e Maddalena mi avete fatto.
Non sono in condizione di scrivere alla mamma. (...) Porta i miei saluti a tutti e ricevi, come sempre e per l'ultima volta, il cuore di questo nipote che ti vuole molto bene e desidera vederti. Cristo vive, Cristo regna, Cristo impera! Viva Cristo Re! Viva Santa Maria di Guadalupe! - José Sánchez del Rio, che è morto in difesa della fede. Non fare a meno di venire.
Addio.
Alle undici della sera giunse il momento tanto atteso. L'odio dei nemici della Chiesa era tale che, con un coltello affilatissimo, gli strapparono la pelle della pianta dei piedi e lo obbligarono a camminare dalla caserma fino al cimitero, calpestando pietre e terra. Nessun lamento uscì dalle labbra in mezzo a tanta tortura. Arrivò al cimitero cantando inni religiosi.
Portato fin sull'orlo di una fossa che in breve sarebbe stata la sua, alcuni soldati gli diedero alcune pugnalate non mortali, per vedere se egli rinnegava la sua fede con questo supplizio. In tono di scherno e con l'intenzione di distruggere psicologicamente l'eroe della fede, il capitano comandante della scorta gli chiese se aveva un messaggio per i suoi genitori. Egli rispose: "Sì, dica loro che ci rivedremo in Cielo". In seguito, chiese al capitano di essere fucilato con le braccia in croce. Come unica risposta, costui estrasse la pistola e gli sparò un colpo alla tempia.
Sentendosi ferito a morte, José raccolse con la sua mano destra un po' di sangue che gli scorreva abbondantemente sul collo, tracciò con questo una croce sulla terra e vi si prostrò sopra, in segno di adorazione. Così, nell'ultima ora della notte del 10 febbraio 1928, la sua anima salì al Cielo e fu ricevuta con giubilo dal suo amato Cristo Re e dalla sua amatissima Madre, la Vergine di Guadalupe.
(Rivista Araldi del Vangelo, Gennaio/2006, n. 25, p. 23 - 25)
José, il piccolo martire dei cristeros oggi è beato
di Marco Respinti
In programmazione nelle principali città, finalmente Cristiada di Dean Wright è entrato dalla porta principale anche in Italia. Critici e “puristi” hanno già rilevato che la pellicola si concede qualche licenza e qualche schematismo. Innegabile. Però il suo dovere lo fa egregiamente. Già l’averla pensata e girata è infatti un titolo di grande merito. Prima che esistesse, la realtà che racconta era appannaggio solo di un pugno di cultori. Oggi invece il film – forte di un gran cast e di una bella fotografia ? consente al messaggio forte di una vicenda che merita di essere riscoperta di raggiungere con facilità anche le “grandi masse”. E del resto per approfondire c’è Cristiada. L’epopea dei Cristeros in Messico(Lindau, Torino 2013) di Mario Arturo Iannaccone, lo studio più completo oggi disponibile in italiano.
Una cosa, però, che forse molti degli spettatori non sanno è che uno dei protagonisti, il piccolo José (interpretato dal messicano Maurico Kuri, classe 1997 (clicca qui) non solo è esistito davvero (come altri nel film), ma è anche un beato della Chiesa Cattolica. José Luis Sánchez del Río era nato il 28 marzo 1913 a Villa de Sahuayo, nello Stato federato di Michoacán, e poi era andato a scuola a Guadalajara, nello Stato di Jalisco, due, cioè, delle zone più calde della ribellione. Tant’è che, allo scoppio della guerra, nel 1926, i suoi due fratelli maggiori, Macario e Miguel, si vollero unire subito ai cristeros. José voleva fare lo stesso, ma aveva solo 13 anni e gli fu impedito. Scalpitò, dunque; smaniò. E così, dai che ti dai, l’anno dopo riuscì a strappare al generale Ruben Guízar Morfin l’incarico di portastendardo. E di clarinettista... Mentre i più grandi difendevano l’onore della fede cattolica a prezzo della vita, a lui ne erano affidati i colori pubblici e il ritmo delle marce. Un compito unico, da vero “grande” nonostante la sua giovanissima età; un ruolo indispensabile.
I cristeros lo chiamavano “Tarcisius”, come il martire romano del secolo III che a 12 anni diede la vita per Cristo e che la Chiesa onora il 15 di agosto come patrono dei chierichetti. La sua storia è tutta contenuta in una breve epigrafe del grande Papa Damaso I (305?-384), santo pure lui, ma basta e avanza. Il piccolo Tarcisio portava un dì l’Eucarestia a dei cristiani imprigionati in ossequio delle persecuzioni scatenate dall’imperatore Lucio Domizio Aureliano (214-275). D’un tratto fu aggredito, forse da suoi coetanei. Il suo primo pensiero andò a Gesù sacramentato, e d’istinto si strinse l’ostia consacrata al petto. Gli aggressori, inviperiti dalla scoperta che Tarcisio era un infame cristiano, lo picchiarono selvaggiamente, cercando di strappargli l’ostia di mano. Ma niente; riprovarono e nulla ancora. Alla fine lo abbandonarono al legionario Quadrato, anch’egli cristiano, intervenuto in sua difesa. Ebbe solo il tempo di spirare. Qualcosa di sublime lega Tarcisio e José; tutti sapevano del resto che da quando aveva 10 anni José s’impegnava a portare in chiesa i ragazzi per le adorazioni eucaristiche.
Fu così che un giorno al piccolo messicano accadde di dover cedere il proprio cavallo al grande generale Guízar Morfin, disarcionato dai nemici; «la vostra vita è più utile della mia», gli disse. Era il 5 febbraio 1928, un giorno difficile per i cristeros. José permise la ritirata del generale, coprendone il ripiegamento a fucilate. Ma finì le munizioni e cadde prigioniero dei federali con diversi altri compagni. Deportato nella città che gli aveva dato i natali, il 7 febbraio fu rinchiuso in una chiesetta profanata: adibita a prigione per i rebeldes, e a stalla. Per José sarebbe però stato facile uscirne: bastava che versasse 5mila pesos o che si arruolasse tra i governativi. Non ci pensò due volte. Rifiutò, e convinse i genitori a fare altrettanto. Alla mamma scrisse: «Muoio contento perché sto morendo al fianco di Nostro Signore.». Lo torturarono: più che altro perché, per sfamarsi, aveva tirato il collo a dei galli richiusi assieme a lui nella chiesa-prigione. Nonostante le pressioni José non cedette e rifiutò ora dopo ora di abiurare. E giù allora ancora con altre torture, finché il 10 febbraio, di fronte dell’ennesimo rifiuto, i federali decisero di farla finita. Con crudele raffinatezza, però: del resto era solo un bambino… Dopo avergli scorticato la pelle da sotto i piedi e averli ricoperti di sale, lo costrinsero a raggiungere il cimitero scalzo; e lì, davanti alla fossa che sarebbe diventata sua, fu accoltellato. Per non fare rumore.
Sarebbe bastato poco a José; sarebbe bastato che smettesse di gridare, di ripetere a gran voce «¡Viva Cristo Rey!», ma non lo fece. Andò invece avanti, ostinato. Fu allora che il comandante del plotone, per disprezzo, gli tirò una rivoltellata. José ebbe ancora la forza per tracciare una croce nella pozza del suo sangue che arrossava il terreno. In Cristiada si vede tutto piuttosto bene. Come san Tarcisio, José morì abbracciando Gesù con la grandezza della sua umana piccolezza. Morì dopo avere ricevuto la Comunione attraverso la zia Magdalena, non visto dai carcerieri. Aveva solo 14 anni (clicca qui). Aveva chiesto sulla tomba di Anacleto Gonzalez Flores (1888-1927), altro martire cristero, di poter affrontare al vita e la morte con il medesimo coraggio che era stato suo (clicca qui). Entrambi sono stati beatificati da Papa Benedetto XVI il 20 novembre 2005 (clicca qui). Con altri 11 martiri di quella mostruosa persecuzione laicista. Tante sono le biografie che negli anni sono state dedicate al piccolo, eroico soldato di Gesù; la più recente, bella, ricca, è Blessed José: Boy Cristero Martyr (www.blessedjose.com), che Kevin McKenzie, Legionario di Cristo, ha pubblicato in giugno.
OMELIA DI SAN GIOVANNI PAOLO II NELLA BEATIFICAZIONE DEI MARTIRI MESSICANI. 2000
1. "Non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Gv 3, 18). Questa esortazione, presa dall'Apostolo Giovanni nel testo della seconda lettura di questa celebrazione, ci invita a imitare Cristo, vivendo al contempo in stretta unione con Lui. Gesù stesso ce lo ha detto nel Vangelo appena proclamato: "Come il tralcio non può fare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me" (Gv 15, 4).
Attraverso l'unione profonda con Cristo, iniziata nel Battesimo e alimentata dalla preghiera, dai sacramenti e dalla pratica delle virtù evangeliche, uomini e donne di tutti i tempi, quali figli della Chiesa, hanno raggiunto la meta della santità. Sono santi perché hanno posto Dio al centro della loro vita e hanno fatto della ricerca e della diffusione del suo Regno la ragione della loro esistenza; santi perché le loro opere continuano a parlare del loro amore totale per il Signore e i fratelli, recando copiosi frutti, grazie alla loro fede viva in Gesù Cristo e al loro impegno ad amare, anche i nemici, come Lui ci ha amato.
2. All'interno del pellegrinaggio giubilare dei messicani, la Chiesa è lieta di proclamare santi questi figli del Messico: Cristóbal Magallanes e 24 compagni martiri, sacerdoti e laici; José María de Yermo y Parres, sacerdote fondatore delle Religiose Serve del Sacro Cuore di Gesù, e María de Jesús Sacramentado Venegas, fondatrice delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù.
Per partecipare a questa solenne celebrazione, onorando così la memoria di questi illustri figli della Chiesa e della vostra Patria, voi pellegrini messicani siete venuti in gran numero, accompagnati da un nutrito gruppo di Vescovi. Vi saluto tutti con grande affetto. La Chiesa in Messico si rallegra di poter contare su questi intercessori nel cielo, modelli di carità suprema, avendo seguito le orme di Gesù Cristo. Tutti donarono la propria vita a Dio e ai fratelli, attraverso il martirio o il cammino dell'offerta generosa al servizio dei bisognosi. La fermezza della loro fede e la speranza li sostennero nelle diverse prove alle quali furono sottoposti. Sono una preziosa eredità, frutto della fede radicata nelle terre messicane, la quale, agli albori del terzo millennio del cristianesimo, deve essere conservata e rivitalizzata affinché continuiate ad essere fedeli a Cristo e alla sua Chiesa come avete fatto nel passato. Messico sempre fedele!
3. Nella prima lettura abbiamo ascoltato come Paolo si muoveva a Gerusalemme: "parlando apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo" (At 9, 28-29). Con la missione di Paolo si prepara l'opera di propagazione della Chiesa, portando il messaggio evangelico in ogni luogo. In questa opera non sono mai mancate le persecuzioni e le violenze contro gli annunciatori della Buona Novella. Tuttavia, al di sopra delle avversità umane, la Chiesa può contare sulla promessa dell'assistenza divina. Perciò abbiamo udito che "la Chiesa era dunque in pace... essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo" (At 9, 31).
Possiamo applicare questo passo degli Atti degli Apostoli alla situazione che dovettero vivere Cristóbal Magallanes e i suoi 24 compagni, martiri nel primo trentennio del XX secolo. La maggior parte apparteneva al clero secolare e tre di essi erano laici seriamente impegnati ad aiutare i sacerdoti. Non abbandonarono il coraggioso esercizio del loro ministero quando la persecuzione religiosa aumentò nell'amata terra messicana, scatenando un odio per la religione cattolica. Tutti accettarono liberamente e serenamente il martirio come testimonianza della propria fede, perdonando in modo esplicito i loro persecutori. Fedeli a Dio e alla fede cattolica tanto radicata nelle comunità ecclesiali che servivano, promuovendo anche il loro benessere materiale, sono oggi un esempio per tutta la Chiesa e per la società messicana in particolare.
Dopo le dure prove che la Chiesa sostenne in Messico in quegli anni convulsi, oggi i cristiani messicani, incoraggiati dalla testimonianza di questi testimoni della fede, possono vivere in pace e in armonia, apportando alla società la ricchezza dei valori evangelici. La Chiesa cresce e progredisce, essendo il crogiolo dove nascono abbondanti vocazioni sacerdotali e religiose, dove si formano famiglie secondo il piano di Dio e dove i giovani, parte considerevole del popolo messicano, possono crescere con la speranza in un futuro migliore. Che il luminoso esempio di Cristóbal Magallanes e dei suoi compagni martiri vi spinga a un rinnovato impegno di fedeltà a Dio, capace di continuare a trasformare la società messicana affinché in essa regnino la giustizia, la fraternità e l'armonia fra tutti!
4. "Questo è il mio comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato" (1 Gv 3, 23). Il mandato per eccellenza che Gesù ha dato ai suoi è di amarsi fraternamente come egli ci ha amato (cfr Gv 15, 12). Nella seconda lettura che abbiamo ascoltato, il comandamento ha un duplice aspetto: credere nella persona di Gesù Cristo, Figlio di Dio, professandolo in ogni momento, e amarci gli uni gli altri perché Cristo stesso ce lo ha prescritto. Questo comandamento è così importante per la vita del credente da trasformarsi nel presupposto necessario affinché abbia luogo la inabitazione divina. La fede, la speranza e l'amore portano ad accogliere esistenzialmente Dio come cammino sicuro verso la santità.
Si può dire che fu questo il cammino intrapreso da José María de Yermo y Parres, che visse il suo dono sacerdotale a Cristo aderendo a Lui con tutte le sue forze, e al contempo distinguendosi per il suo atteggiamento fondamentalmente orante e contemplativo. Nel Cuore di Cristo trovò la guida per la sua spiritualità, e considerando il suo amore infinito per gli uomini, volle imitarlo facendo della carità la regola della sua vita.
Il nuovo Santo fondò le religiose Serve del Sacro Cuore di Gesù e dei Poveri, denominazione che riunisce i suoi due grandi amori, che esprimono nella Chiesa lo spirito e il carisma del nuovo santo.
Care Figlie di San José María de Yermo y Parres: vivete con generosità la ricca eredità del vostro fondatore, cominciando dalla comunione fraterna in comunità e prolungandola nell'amore misericordioso per il fratello, con umiltà, semplicità ed efficacia, e, al di sopra di tutto, in perfetta unione con Dio.
5. "Rimanete in me e io in voi... Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla" (Gv15, 4-5). Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù ci ha esortato a rimanere in Lui, per unire a sé tutti gli uomini. Questo invito esige di portare a termine il nostro impegno battesimale, di vivere nel suo amore, d'ispirarsi alla sua Parola, di alimentarsi con l'Eucaristia, di ricevere il suo perdono e, quand'è necessario, di portare con Lui la croce. La separazione da Dio è la tragedia più grande che l'uomo possa vivere. La linfa che giunge al tralcio lo fa crescere; la grazia che proviene da Cristo ci rende adulti e maturi affinché rechiamo frutti di vita eterna.
Santa María de Jesús Sacramentado Venegas, prima messicana canonizzata, seppe rimanere unita a Cristo nella sua lunga esistenza terrena e per questo recò frutti abbondanti di vita eterna. La sua spiritualità fu caratterizzata da una singolare pietà eucaristica, poiché è chiaro che cammino eccellente per l'unione con il Signore è cercarlo, adorarlo, amarlo nel santissimo mistero della sua presenza reale nel Sacramento dell'Altare.
Volle prolungare la sua opera con la fondazione delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che proseguono oggi nella Chiesa il suo carisma della carità verso i poveri e i malati. Di fatto, l'amore di Dio è universale, intende giungere a tutti gli uomini; perciò la nuova Santa comprese che il suo dovere era di diffonderlo, prodigandosi in attenzioni verso tutti fino alla fine dei suoi giorni, anche quando l'energia fisica diminuì e le dure prove attraversate nel corso dell'esistenza ridussero le sue forze. Fedelissima nell'osservanza delle costituzioni, rispettosa verso i Vescovi e i sacerdoti, sollecita con i seminaristi, Santa María de Jesús Sacramentado è un'eloquente testimonianza di consacrazione assoluta al servizio di Dio e dell'umanità dolente.
6. Questa solenne celebrazione ci ricorda che la fede comporta una relazione profonda con il Signore. I nuovi santi ci insegnano che i veri seguaci e discepoli di Gesù sono coloro che compiono la volontà di Dio e che sono uniti a Lui mediante la fede e la grazia.
Ascoltare la parola di Dio, rendere armoniosa la propria esistenza, mettendo al primo posto Cristo, fa sì che la vita dell'essere umano si configuri a Lui. Il "rimanete in me e io in voi" continua ad essere l'invito di Gesù che deve risuonare continuamente in ognuno di noi e nel nostro ambiente. San Paolo, accogliendo questa stessa chiamata, poté esclamare: "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2, 20). Che la Parola di Dio proclamata in questa liturgia faccia sì che la nostra vita sia autentica rimanendo esistenzialmente uniti al Signore, amando non solo a parole ma con i fatti e nella verità (cfr 1 Gv 3, 18)! Così la nostra vita sarà realmente "per Cristo, con Cristo ed in Cristo".
Stiamo vivendo il Grande Giubileo dell'Anno 2000. Fra i suoi obiettivi vi è quello di "suscitare in ogni fedele un vero anelito alla santità" (Tertio Millennio adveniente, n. 42). Che l'esempio di questi nuovi Santi, dono della Chiesa in Messico alla Chiesa universale, spinga i fedeli, con tutti i mezzi a loro disposizione e soprattutto con l'aiuto della grazia di Dio, a ricercare con coraggio e decisione la santità!
Che la Vergine di Guadalupe, invocata dai martiri nel momento supremo del loro dono di sé, alla quale San José María de Yermo e Santa María de Jesús Sacramentado Venegas professarono una così tenera devozione, accompagni con la sua materna protezione i buoni propositi di quanto onorano oggi i nuovi Santi e aiuti coloro che seguono il loro esempio, guidi e protegga anche la Chiesa affinché, con la sua azione evangelizzatrice e la testimonianza cristiana di tutti i suoi figli, illumini il cammino dell'umanità nel terzo millennio cristiano! Amen.
MARTIRI MESSICANI
I martiri messicani non sono solo gloria della Chiesa messicana, ma soprattutto della Chiesa universale, perché hanno seguito le orme di Gesù morto in croce.
Questi beati, sono prima di tutto sacerdoti, e sono stati uccisi a causa dell'esercizio del loro ministero, coscienti delle circostanze persecutorie contro la Chiesa del Messico.
Ci sono anche tre giovani entusiasti e profondamente impegnati nel lavoro pastorale del loro parroco, che hanno accompagnato nell'esercizio del ministero della Parola durante la loro vita, e nel sacrificio supremo della morte.
Nel 1926 ci fu in Messico una persecuzione scatenata contro la Chiesa e che si accanì contro i cattolici messicani e specialmente contro i loro sacerdoti.
Non sono stati alcuni soltanto i difensori della Chiesa e della libertà, ma tutta la Nazione Messicana ha reso la testimonianza eloquente e silenziosa del suo sangue sparso per Cristo Re. Una delle condizioni poste dai Vescovi messicani per selezionare 25 tra i numerosi martiri messicani del 1926-1929 è stata quella di riconoscere che questi venticinque « non avevano nessuna implicazione nella difesa armata »; questa scelta è stata fatta per evitare delle difficoltà con il governo messicano, il quale aveva calpestato i diritti umani e religiosi dei cattolici, arrivando fino all'assassinio.
Presentiamo in particolare la vita del Parroco D. Pedro Maldonado assieme al gruppo di 25 martiri, dei quali 22 furono presbiteri diocesani e 3 generosi giovani della Gioventù dell'Azione Cattolica Messicana.
Il motivo della pubblicazione di queste vite esemplari è quello di sentire che ci sono ancora delle persone che con grande spirito di carità offrono la vita per gli uomini e per Dio. La Chiesa e il mondo ha bisogno di santità, santità in tutti gli stati di vita e cioè i giovani, gli sposati, i religiosi ed i sacerdoti.
Chiediamo al Signore per l'intercessione e l'esempio di questi martiri che ci aiuti ad affrontare con più gioia e fortezza le difficoltà della nostra vita, essendo ogni giorno più convinti che possiamo essere santi, che oggi ci sono dei santi.
Cristóbal Magallanes Jara
Nacque a Totaltiche, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara) il 30 luglio 1869. Parroco nella sua terra natale.
Sacerdote dalla fede ardente, prudente direttore dei suoi fratelli sacerdoti e pastore pieno di zelo fu dedito al miglioramento umano e cristiano dei suoi fedeli. Missionario tra gli indigeni «huichole» e fervente divulgatore del Rosario a Maria, Vergine Santissima. Le vocazioni sacerdotali erano ciò a cui maggiormente si dedicava nel lavoro della sua vigna. Quando i persecutori della Chiesa chiusero il Seminario di Guadalajara, si offrì di fondare nella sua parrocchia un Seminario per proteggere, orientare e formare i futuri sacerdoti, ed ottenne un abbondante raccolto. Il 25 maggio 1927 venne fucilato a Colotlàn, Jalisco (Diocesi de Zacatecas, Zac.). Di fronte al carnefice ebbe la forza di confortare il suo ministro e compagno di martirio, Padre Agustín Caloca, dicendogli: «Stai tranquillo, figliolo, solo un momento e poi il cielo». Poi, rivolgendosi alla truppa, esclamò: «Io muoio innocente e chiedo a Dio che il mio sangue serva per l'unione dei miei fratelli messicani».
Róman Adame Rosales
Nacque a Teocaltiche, Jalisco (Diocesi di Aguascalientes) il 27 febbraio 1859. Parroco di Nochistlàn, Zacatecas (Arcidiocesi di Guadalajara). Sacerdote profondamente umile. Non si lamentò mai di fronte al dolore diceva con serenità: « Sia fatta la volontà di Dio ». Si occupò di catechesi, missioni popolari, costruzione di cappelle affinché i fedeli avessero vicino il Santissimo Sacramento. Aiutò gli ammalati e cercò di educare i bambini. Queste furono le principali attività del suo ministero parrocchiale. Durante la persecuzione, in segreto continuò ad amministrare i sacramenti. Fu individuato il suo nascondiglio e di notte venne fatto prigioniero. Giunto il momento dell'esecuzione, il giorno 21 aprile 1927, con un gesto di bontà cercò di salvare il soldato che, renitente, sarebbe stato anche lui fucilato. Poi deciso e irremovibile ma umilmente, consegnò la sua vita
Rodrigo Aguilar Aleman
Nacque a Sayula, Jalisco (Diocesi di Ciudad Guzmán) il 13 marzo 1875. Parroco di Unión de Tula, Jalisco (Diocesi di Autlán). Sacerdote e poeta molto sensibile sia di cuore che di fede. Consacrò il suo sacerdozio alla Santissima Vergine di Guadalupe. Con tutto i1 suo cuore implorò: «O Signore, da' a noi la grazia di patire in nome tuo, di confermare la nostra fede con il nostro sangue e coronare il nostro sacerdozio con i1 martirio "Fiat voluntas tuas!"».Per questo, quando dovette abbandonare la sua parrocchia e nascondersi nel paese di Ejutla, Jalisco e giunsero le truppe federali ad arrestarlo, il suo volto era splendente di pace e di gioia, e si accomiatò dicendo:
«Ci vediamo in cielo». All'alba del 28 ottobre 1927 lo condussero sulla piazza di Ejutla. Agganciarono un cappio ad un grosso ramo di albero di mango e lo posero al collo del sacerdote. Poi vollero provare la sua forza e con arroganza gli chiesero: «Chi acclami?». La valorosa risposta fu: «Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe?». Allora la corda venne tirata con forza ed il signor parroco Aguilar restò appeso. Si fece nuovamente scendere e di nuovo gli chiesero: «Chi acclami?». E per la seconda volta, con voce sicura rispose: «Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!». Un nuovo identico supplizio e quindi, per la terza volta la stessa domanda: «Chi acclami?». Il martire agonizzante, sussurrando rispose: «Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!».
Julio Álvarez Mendoza
Nato a Guadalajara, Jalísco, il 20 dicembre 1866. Parroco di Mechoacanejo, Jalisco (Diocesi di Aguascalientes). In questo luogo trascorse tutta la vita sacerdotale. Parroco affettuoso, padre ed amico dei bambini, povero che visse tra i poveri, sacerdote semplice. Insegnò alcuni piccoli lavori affinché la gente potesse sopravvivere. Aveva imparato il mestiere di sarto e ciò gli servì per cucire vestiti a quanti erano in necessità. Amò come un figlio la Santissima Vergine di Guadalupe. Dedito al suo ministero di parroco di campagna, mentre percorreva una strada di campagna, fu riconosciuto come sacerdote e arrestato dai membri dell'esercito. A questo punto iniziò il suo cammino verso il martirio. Venne condotto tra mille difficoltà a Villa Hidalgo, Jalisco, a Aguascalientes, a León, Guanajuato ed infine a San Julián, Jalisco. Il 30 marzo 1927 fu posto su un cumulo di spazzatura per essere fucilato e disse dolcemente: «Sto per morire innocente. Non ho fatto nessun male. Il mio delitto è quello di essere ministro di Dio. Io vi perdono». Incrociò le braccia ed attese la scarica.
Luis Batis Sáinz
Nacque a San Miguel Mezquital, Zacatecas (Arcidiocesi di Durango) il 13 settembre 1870. Parroco di San Pedro Chalchihuites, Zacatecas (Arcidiocesi di Durango). Sacerdote zelante in tutte le sue attività ebbe una particolare attenzione verso i giovani. Per loro fu una guida ed un padre affettuoso che, in modi diversi, li faceva crescere sia spiritualmente che culturalmente e li aiutava a superare se stessi perfino in campo materiale. In modo speciale seppe infondere nella gioventù lo spirito dell'eroismo cristiano per professare la fede. Erano appena trascorsi quindici giorni dalla soppressione del culto pubblico, ordinata dai Vescovi, quando venne preso prigioniero. Quando gli venne comunicato che lo cercavano, disse: «Che si faccia la volontà di Dio, se Lui lo desidera io sarò uno dei martiri della Chiesa! ». Il giorno seguente, il 15 agosto 1926, fu condotto, insieme ai suoi più vicini collaboratori nell'apostolato, Manuel Morales, Salvador Lara y David Roldán, nella zona conosciuta come "Porto di Santa Teresa". Il Signor Parroco Batis e Manuel Morales furono portati in strada per essere fucilati. Allora il sacerdote intercedette per il suo compagno Manuel ricordando ai carnefici che aveva moglie e figli. Fu tutto inutile e il parroco, con il suo caratteristico sorriso buono, assolse il suo compagno e gli disse: «Arrivederci in cielo». Pochi secondi dopo si consumava il suo martirio nel giorno della festa della Assunzione della Vergine Santissima.
Augustín Caloca Cortés
Naque a San Juan Bautista de Teúl, Zacatecas (Arcidiocesi di Guadalajara), il 5 maggio 1898. Cooperatore nella parrocchia dì Totatiche e prefetto del Seminario Ausiliare sito nello stesso paese, fu un esempio di purezza sacerdotale. Dopo aver aiutato i seminaristi a fuggire, fu fatto prigioniero e condotto nella stessa prigione nella quale si trovava il suo parroco, il signor curato Magallanes. Un militare, commosso per 1a sua giovane età, gli offrì la libertà. Lui l'avrebbe accettata solo se veniva concessa anche al parroco. Di fronte al plotone di esecuzione, l'atteggiamento e le parole del suo parroco lo colmarono di forza, tanto che esclamò: « Grazie a Dio viviamo e per Lui moriamo». Il 25 maggio 1927 venne fucilato a Colotlán, Jalisco (Diocesi de Zacatecas, Zac.). Di fronte al carnefice ebbe la forza di confortare il suo ministro e compagno di martirio, che lo consolò, dicendogli: «Stai tranquillo, figliolo, solo un momento e poi il cielo». Dopo, rivolgendosi alla truppa, esclamò: «Io muoio innocente e chiedo a Dio che i1 mio sangue serva per l'unione dei miei fratelli messicani».
Mateo Correa Magallanes
Nacque a Tepechitlán, Zacatecas (Diocesi di Zacatecas) il 23 luglio 1866. Parroco di Valparaiso, Zacatecas, (Diocesi di Zacatecas). Il Padre Mateo svolse fedelmente tutti gli incarichi sacerdotali: evangelizzare e servire i poveri, ubbidire al suo Vescovo, unirsi a Cristo Sacerdote e Vittima, specialmente diventando martire a motivo del sigillo sacramentale. Continuamente perseguitato e imprigionato varie volte, fu catturato nuovamente mentre andava ad aiutare una persona ammalata. Lo tennero in carcere alcuni giorni a Fresnillo, Zacatecas, quindi venne condotto a Durango. Il generale gli chiese di confessare alcuni prigionieri e di riferire poi ciò che aveva appreso in confessione, altrimenti lo avrebbe ucciso. II signor Parroco Correa rispose con dignità: «Lei può farlo, ma sappia che un Sacerdote deve saper conservare il segreto della confessione.. Sono disposto a morire ». Fu fucilato in un campo, nei dintorni della città di Durango, il 16 febbraio 1927 e così quel parroco mite e pronto al sacrificio iniziò la sua vera vita.
Atilano Cruz Alvarado
Nacque ad Ahuetita de Abajo, appartenente alla parrocchia di Teocaltiche, Jalisco (Diocesi de Aguascalientes) il 5 ottobre 1901. Sacerdote al servizio della parrocchia di Cuquío, Jalisco. Venne ordinato sacerdote, quando questo era considerato il maggior delitto che poteva commettere un messicano. Ma lui, con una gioia che sprizzava da tutti i pori, stese le sue mani affinché fossero consacrate sotto il cielo azzurro dello Stato di Jalisco in un dirupo vicino al quale si nascondevano sia l' Arcivescovo che il Seminario. Undici mesi dopo il tranquillo ed allegro sacerdote, mentre esercitava, come poteva, il suo ministero, venne chiamato dal suo parroco il signor Curato Justino Orona. Obbediente si avviò verso il « Rancho de 1as Cruces », luogo che sarebbe stato il suo calvario. Poco prima aveva scritto: «Nostro Signore Gesù Cristo ci invita ad accompagnarlo nella passione». Mentre dormiva giunsero le forze militari e le autorità civili. Il Padre Atilano udendo la scarica che troncò la vita al suo superiore, si inginocchiò sul letto ed attese il momento del suo sacrificio. Lui venne fucilato, dando prova della sua fedeltà a Cristo Sacerdote, all'alba del 1° luglio 1928.
Miguel De La Mora De La Mora
Nacque a Tecalitlán, Jalisco (Diocesi di Colima) il 19 giugno 1878. Cappellano della Cattedrale di Colima. Sacerdote semplice, modesto, ordinato, puntuale, fu particolarmente caritatevole con i poveri e pronto a servire tutti. Colima fu il primo Stato della Repubblica Messicana che richiese l'iscrizione dei sacerdoti per poter svolgere il sacerdozio. Sia il Vescovo che i suoi sacerdoti protestarono ribadendo che avrebbero patito qualsiasi cosa prima di tradire la loro fede e la fedeltà alla Chiesa. La risposta del governo fu quella di processare ed allontanare tutti i sacerdoti. Padre Miguel, come altri, cercò di nascondersi per poter prestare aiuto ai fedeli. Fu scoperto e minacciato di essere imprigionato a vita se non apriva al culto la Cattedrale, contro le disposizioni del Vescovo. Di fronte alle pressioni del governo militare preferì andare via dalla città. Per la strada fu arrestato e condotto di fronte al generale, che lo condannò alla fucilazione. Camminò in silenzio fino al luogo indicatogli e, come proclama della sua fede e del suo amore a Maria Santissima, tirò fuori il suo rosario, iniziò a pregare e con questo in mano, cadde ucciso dai proiettili. Era mezzogiorno del 7 agosto 1927.
Pedro Esqueda Ramírez
Nacque a San Juan de los Lagos, Jalisco (Diocesi de San Juan de los Lagos) i1 29 aprile 1887. Vicario di San Juan de los Lagos. Si dedicò con particolare cura e con vera passione alla catechesi dei bambini. Fondò vari centri di studio ed una scuola per la formazione catechistica. Nutrì grande devozione al Santissimo Sacramento. Nel mezzo della persecuzione organizzò una veglia perenne a Gesù Sacramentato con le varie famiglie. Nel momento in cui fu incarcerato fu malmenato così duramente che gli si aprì una ferita sul volto. Un militare, dopo averlo colpito, gli disse: «Ora sarai pentito di esser stato sacerdote», ed a ciò rispose dolcemente Padre Pedro: «No, neppure un attimo, e mi manca poco per vedere il cielo». Il 22 novembre 1927 lo portarono fuori dal carcere per giustiziarlo; i bambini lo circondarono e il Padre Esqueda ripeté con insistenza ad un piccolo che camminava al suo fianco: «Non tralasciare di studiare il catechismo, né per alcun motivo tralascia 1a dottrina cristiana». Su un foglio di carta annotò le sue ultime raccomandazioni per le catechiste. Quando giunsero nella periferia del paese di Teocaltitlán, Jalisco, gli spararono tre colpi che cambiarono la sua vita terrena in eterna.
Margarito Flores García
Nacque a Taxco, Guerrero (Diocesi di Chilapa) i1 22 febbraio 1899. Parroco di Atenango del Río, Guerrero (Diocesi di Chilapa). I tre anni trascorsi nel ministero furono sufficienti per conoscere la sua indole sacerdotale. Si trovava fuori della Diocesi, a causa della persecuzione, quando venne a conoscenza della morte eroica del signor Parroco David Uribe, e professò queste parole: «Mi ribolle l'anima, anch'io finirò con il dar la vita per Cristo; chiederò il permesso al Superiore ed inizierò il volo verso il martirio». Il Vicario generale della Diocesi lo nominò vicario con funzioni di parroco di Atenango del Río, Guerrero. Il Padre Margarito si mise all'opera. Fu scoperto e identificato come sacerdote, quando stava per giungere alla meta; fu imprigionato e condotto a Tulimán, Guerrero, luogo in cui venne dato l'ordine di fucilarlo. Il Padre Margarito chiese il permesso di pregare, si inginocchiò per qualche secondo, baciò il suolo e quindi, in piedi, attese gli spari che gli distrussero la testa e lo unirono per sempre a Cristo Sacerdote, il giorno 12 novembre 1927.
José Isabel Flores Varela
Nacque a Santa Maria de la Paz, della parrocchia di San Juan Bautista del Teúl, Zacatecas (Arcidiocesi di Guadalajara) il 28 novembre 1866. Cappellano di Matatlán, della parrocchia di Zapotlanejo, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara). Per 26 anni diffuse la carità del suo ministero in quella cappellania, mostrandosi a tutti come un padre affettuoso che li edificò con la sua abnegazione e con la sua povertà, il suo spirito di sacrificio, la sua pietà e la sua sapienza. Un vecchio compagno che era stato protetto da Padre Flores, lo denunciò al capo di Zapotlanejo e venne incarcerato il 18 giugno 1927, quando stava dirigendosi verso una fattoria per celebrare l'Eucaristia. Fu nascosto in un luogo sporco, tenuto prigioniero e maltrattato; il capo gli faceva ascoltare musica e gli diceva: «Ascolta questa bella musica; se firmi accettando le leggi, ti lascio libero». Senza scomporsi, il martire disse: «Io ascolterò una musica migliore in cielo ». Padre José Isabel ripeté più volte: «Preferisco morire piuttosto che deludere Dio». Il 21 giugno 1927 venne condotto, di notte, nel camposanto di Zapotlanejo per l'esecuzione. Cercarono di ucciderlo impiccandolo ma non vi riuscirono. Il capo ordinò di sparare, ma un soldato riconobbe in lui il sacerdote che lo aveva battezzato e non volle farlo; infuriato l'aguzzino assassinò il soldato. Misteriosamente le armi non spararono contro Padre Flores, e quindi, uno di quegli assassini tirò fuori un grosso coltello e recise la gola del valoroso martire.
David Galván Bermudes
Nacque a Guadalajara, Jalisco il 29 gennaio 1881. Professore nel Seminario di Guadalajara. La sua grande carità verso i poveri e gli operai lo spinsero ad organizzare ed aiutare il gruppo dei calzolai, lavoro che effettuò a fianco di suo padre. Strenuo difensore della santità del matrimonio aiutò una ragazza perseguitata da un militare, che, già coniugato, desiderava contrarre matrimonio con lei. Questo fatto procurò al Padre Galván l'inimicizia del tenente che, alla fine, divenne il suo giustiziere. Il 30 gennaio 1915 mentre cercava di aiutare spiritualmente i soldati feriti in un combattimento avvenuto a Guadalajara, fu fatto prigioniero. Mentre era in attesa dell'esecuzione il suo compagno di prigionia gli comunicò che non avevano fatto colazione ed il Padre Galván gli disse tranquillamente: «Oggi andremo a pranzare con Dio». E, di fronte a coloro che erano incaricati di giustiziarlo, mostrò il petto per ricevere le pallottole.
Salvador Lara Puente
Nacque nel paese di Berlín, Durango, appartenente alla parrocchia di Súchil (Arcidiocesi di Durango) il 13 agosto 1905. Salvatore era giovane, nel pieno degli anni, alto e robusto, dedito allo sport della «charrería»; educato e dai modi distinti con tutti; rispettoso ed affettuoso con sua madre che era vedova; onesto e responsabile come impiegato in una ditta mineraria. Viveva la sua fede con purezza e si dedicava all'apostolato come militante nell'Azione Cattolica della Gioventù Messicana. Quando giunsero i soldati per arrestarlo, insieme a Manuel e Davide, rispose quando venne chiamato: «Sono qui». Camminò sorridente, come sempre, insieme al suo compagno e cugino Davide fino al luogo indicatogli per essere fucilato. Si erano appena resi conto che il parroco, il signor Batis e il suo amico Manuel Morales erano stati fucilati. Pregando a voce bassa Salvador ricevette una scarica che gli causò delle ferite dalle quali uscì il suo sangue di martire e si scoprì la sua grandezza di cristiano.
Jesús Méndez Montoya
Nacque a Tarímbaro, Michoacán (Arcidiocesi di Morelia) il 10 giugno 1880. Vicario di Valtierrilla, Guanajuato (Arcidiacesi di Morelia). Fu un sacerdote che dedicò completamente se stesso agli altri, e non lesinò mezzi per intensificare la vita cristiana tra i suoi fedeli. Si sottopose a confessare per lunghe ore e da queste confessioni uscivano cristiani convertiti o anelanti a maggiore perfezione grazie ai suoi giusti consigli. Viveva con le famiglie povere, era un catechista ed una guida per gli operai e per i contadini; un solerte maestro di musica che riuscì ad organizzare un nutrito coro per le celebrazioni. Il 5 febbraio 1928 le forze federali cercarono di reprimere un gruppetto di praticanti e si diressero verso l'abitazione in cui si nascondeva il Padre Jesús, che cercò di salvare una pisside contenente Ostie consacrate. Notato dai soldati chiese loro che gli venisse concesso un attimo per poter consumare il Santissimo Sacramento; gli venne concesso. Successivamente con dolcezza si avvicinò ad una sorella e le disse: «È 1a volontà di Dio. Che si compia 1a sua volontà». I soldati lo condussero a pochi metri dal tempio, fuori dell'atrio, e lo sacrificarono con tre colpi d'arma da fuoco. Il sacerdote che seppe valorizzare le sue doti umane e la sua conoscenza di Dio per far amare Gesù Cristo, con il suo sangue proclamò il suo grande amore a Cristo Re.
Manuel Morales
Nacque a Mesillas, Zacatecas, appartenente alla parrocchia Sombrerete, Zacatecas (Arcidiocesi di Durango) il giorno 8 febbraio 1898. Cristiano di un solo pezzo: sposo fedele, padre affettuoso con i suoi tre figli piccoli, buon lavoratore, laico dedito all'apostolato della sua parrocchia e all'intensa vita spirituale alimentata dall'Eucaristia. Membro dell'Associazione Cattolica della Gioventù Messicana e presidente della Lega Nazionale in Difesa della Libertà Religiosa, associazione che, con mezzi pacifici, cercava di ottenere l'abolizione delle empie leggi. Il giorno 15 agosto 1926 quando venne a conoscenza che il signor Parroco Batis era stato incarcerato si mosse per andare ad intercedere per la sua libertà. Aveva appena riunito un gruppo di giovani per decidere sul da farsi, quando si presentò una truppa ed il capo gridò: «Manuel Morales!». Manuel fece un passo avanti e con molto garbo si presentò: «Sono io, a sua disposizione!». Lo insultarono ed iniziarono a colpirlo con ferocia. Fu portato fuori dalla città insieme al signor Parroco, e quando udì che questi chiedeva grazia per la sua vita, considerando che aveva famiglia, con audacia disse:
«Signor Parroco, io muoio, ma Dio non muore. Lui si occuperà di mia moglie e dei miei figli». Poi si sollevò ed esclamò: «Viva Cristo Re e la Vergine di Guadalupe!». La testimonianza della sua vita restò firmata con il suo sangue di martire.
Justino Orona Madrigal
Nacque a Atoyac, Jalisco (Diocesi di Ciudad Guzmán) il 14 aprile 1877. Parroco di Cuquío, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara). Fondatore della Congregazione religiosa delle Sorelle Clarisse del Sacro Cuore. La sua vita fu segnata da dolori ma sempre si mantenne cortese e generoso. Una volta scrisse: «Coloro che perseguono il cammino del dolore con fedeltà, con certezza possono salire al cielo». Quando la persecuzione divenne più pesante rimase tra i suoi fedeli dicendo: «Io resterò tra i miei, vivo o morto». Una notte, dopo aver deciso con il suo vicario e compagno di martirio, Padre Atilano Cruz, una speciale azione pastorale, da tenersi in mezzo ad innumerevoli pericoli, entrambi si ritirarono in una casa del «Rancho de Las Cruces», vicino a Cuquío per riposare. All'alba del 1° luglio 1928 le forze federali ed il presidente municipale de Cuquío irruppero violentemente nel rancho e colpirono la porta della stanza in cui dormivano. Il signor Curato Orona aprì e con voce forte salutò il giustiziere: «Viva Cristo Re!». La risposta fu una pioggia di pallottole.
Sabas Reyes Salazar
Nacque a Cocula, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara) il 5 dicembre 1883. Vicario a Tototlán, Jalisco (Diocesi di San Juan de los Lagos). Semplice e fervente aveva una speciale devozione per la Santissima Trinità. Invocava frequentemente anche le anime del purgatorio. Si interessò molto della formazione dei bambini e dei giovani, tanto nella catechesi come nell'insegnamento delle scienze, arti e mestieri, soprattutto nella musica. Affabile e dedito al suo ministero. Esigeva molto rispetto per tutto ciò che si riferiva al culto e desiderava che si eseguissero prontamente tutti gli incarichi. Durante il periodo più pericoloso per i sacerdoti, quando gli si consigliava di lasciare Tototlán, lui replicava: «Mi hanno lasciato qui e qui attendo. Vediamo che cosa dispone Iddio». Nella Settimana Santa del 1927 giunsero le truppe federali e i proprietari di terre cercando il signor Parroco Francisco Vizcarra ed i suoi ministri. Trovarono solo Padre Reyes e su lui riversarono tutto il loro odio. Lo presero, lo legarono con forza ad una colonna del tempio parrocchiale, lo torturarono per tre giorni con la fame e la sete e, con inqualificabile sadismo, gli bruciarono le mani. Il 13 aprile 1927, Mercoledì Santo, venne condotto al cimitero. Finirono di ucciderlo, ma, prima di morire, più con l'anima che con la voce, il sacerdote martire riuscì a gridare: «Viva Cristo Re!».
José María Robles Hurtado
Nacque a Mascota, Jalisco (Diocesi di Tepic) il 3 maggio 1888. Parroco di Tecolotlán, Jalisco, e fondatore della Congregazione religiosa delle Sorelle del Cuore di Gesù Sacramentato. Fervido apostolo della devozione al Sacro Cuore di Gesù, scrisse piccole opere divulgative. Poco prima di essere ucciso, scrisse in una poesia i suoi ultimi desideri:
«Desidero amare il tuo Cuore, / Gesù mio, con partecipazione totale, / desidero amarlo con passione, / desidero amarlo fino al martirio. / Con l'anima ti benedico, / mio Sacro Cuore; / dimmi: Si arriva all'attimo / della felice ed eterna unione?».
Nella sierra di Qui1a, Jalisco (Diocesi di Autlán), venne appeso ad un albero i126 giugno 1927.
David Roldán Lara
Nacque a Chalchihuites, Zacatecas (Arcidiocesi di Durango) il 2 marzo 1902. Orfano di padre, quando era molto piccolo, fu per la madre un figlio buono ed affettuoso. Per i suoi fratelli fu come un padre. I suoi amici lo stimavano per la sua allegria e per la generosità; i suoi compagni di lavoro per la bontà e comprensione. Per il proprietario dell'impresa mineraria, in cui lavorava, fu impiegato attento, onesto e lavoratore. Per la sua fidanzata, fu giovane tutto di un pezzo e sincero. Condivideva con il suo Parroco, il signor Curato Batis, i problemi dell'apostolato, come membro dell'Azione Cattolica della Gioventù Messicana, le angustie della situazione in cui si trovava la Chiesa e le aspirazioni di essere fedele a Cristo fino al martirio. Dato che era unito dagli stessi ideali del suo amico Manuel Morales e di suo cugino Salvador Lara, fu con essi imprigionato e quindi giustiziato. A pochi metri dal luogo dove furono martirizzati il signor Curato Luis Batis e Manuel. Senza impaurirsi percorse serenamente gli ultimi passi sulla terra che lo separavano dal cielo e venne ucciso insieme al cugino Salvador. Quel 15 agosto 1926, il sole allo zenit, la vita in fiore e il supremo amore di Cristo si unirono nel martirio di David.
Toribio Romo González
Nacque a Santa Ana de Guadalupe, appartenente alla parrocchia di Jalostotitlán, Jalisco, (Diocesi di San Juan de los Lagos) il 16 aprile del 1900. Vicario con funzioni di parroco a Tequila, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara). Sacerdote dal cuore sensibile e di assidua orazione. Profondamente preso dal mistero dell'Eucaristia chiese molte volte: «Signore non mi lasciare nemmeno per un giorno senza dire la Messa, senza abbracciarti nella Comunione». In occasione di una Prima Comunione, tenendo l'Ostia Sacra nelle sue mani disse: «Signore, accetteresti il mio sangue che ti offro per la pace della Chiesa?». Mentre si trovava ad Aguascalientes, luogo vicino a Tequila, che serviva come rifugio e centro del suo apostolato, volle aggiornare i registri parrocchiali. Lavorò tutto il giorno del venerdì ed anche la notte. Alle cinque del mattino di sabato 25 febbraio 1928, volle celebrare l'Eucaristia ma, sentendosi molto stanco e con sonno, preferì dormire un poco per celebrare meglio. Si era appena addormentato quando un gruppo di contadini e soldati entrarono nella stanza e uno di questi lo indicò dicendo: «Quello è il sacerdote, uccidetelo». Il Padre Toribio si svegliò impaurito, si sollevò e lo colpirono. Ferito e vacillante camminò un po', ma una nuova scarica alle spalle gli tolse la vita ed il suo sangue generoso tinse di rosso la terra di questa zona di Jalisco.
Jenaro Sánchez Delgadillo
Nacque a Zapopan, Jalisco (Arcidiocesí di Guadalajara) i1 19 settembre 1886. Vicario di Tamazulita, della parrocchia di Tecolotlán, Jalisco (Diocesi di Autlán). Il suo parroco elogiava la sua obbedienza. I fedeli ammiravano la sua rettitudine, il suo fervore, la sua eloquenza nella predicazione ed accettavano facilmente la fermezza del Padre Jenaro quando chiedeva una buona preparazione per poter ricevere i sacramenti. I soldati ed alcuni coloni lo individuarono mentre insieme ad alcuni fedeli suoi amici andava per i campi. Vennero tutti lasciati liberi, mentre il Padre Jenaro venne condotto su un colle vicino a Tecolotlán e su un albero prepararono la forca. Padre Jenaro posto di fronte al plotone, con eroica serenità proferì le seguenti parole: «Paesani, mi impiccheranno; io ti perdono; che anche Iddio, mio Padre, ti perdoni e che sempre viva Cristo Re!». I carnefici tirarono la corda così forte che la testa del martire batté violentemente su un ramo dell'albero. Dopo poco morì in quella stessa notte del 17 gennaio 1927. L'astio dei soldati continuò e, tornati all'alba, fecero scendere il cadavere, gli spararono sulla spalla e una pugnalata quasi attraversò il corpo ormai inerte del testimone di Cristo.
Tranquilino Ubiarco Robles
Nacque a Zapotlán el Grande, Jalisco (Diocesi di Ciudad Guzmán) l'8 luglio 1899. Vicario con funzioni di parroco a Tepatitlán, Jalisco (Diocesi di San Juan de los Lagos). Fu uno degli instancabili ministri nei tempi difficili della persecuzione. Non veniva fermato da nulla. Pieno di carità, andava ad amministrare i sacramenti ed a sostenere la vita cristiana tra i fedeli portando l'Eucaristia nelle case. All'inizio del mese di ottobre del 1928 andò a Guadalajara a comprare quanto era necessario per il Sacrificio Eucaristico. Qualcuno gli fece notare che la sua zona pastorale era posta in uno dei luoghi di maggior pericolo: Los Altos de Jalisco. Allora il Padre Ubiarco con molta semplicità replicò: «Per ora ritorno alla mia parrocchia; vediamo che posso fare e se mi toccherà morire per Dio, sia benedetto». Una notte si stava preparando a celebrare l'Eucaristia ed a benedire un matrimonio, quando lo fecero prigioniero e lo condannarono a morire impiccato su un albero del viale, fuori città. Con fermezza cristiana benedisse la grossa fune, strumento del suo martirio, e ad un soldato che non volle partecipare al crimine, disse, ripetendo le parole del Maestro: «Oggi verrai con me in paradiso». Era la mattina del 5 ottobre 1928.
David Uribe Velasco
Nacque a Buenavista de Cuéllar, Guerrero (Diocesi di Chilapa) il 29 dicembre 1889. Parroco di Iguala, Guerrero (Diocesi di Chilapa). Esercitò in modo esemplare il suo ministero in una regione attaccata dalla massoneria, dal protestantesimo e dallo scisma. Il militare che lo catturò gli propose ampia libertà nel caso che avesse accettato le leggi e fosse diventato vescovo della chiesa scismatica creata dal governo della repubblica. Il Padre David, ribadì ciò che già aveva scritto, appena un mese prima, e che denota tutta la forza della sua fede e della sua fedeltà: «Se sono stato unto con l'olio santo che mi fa ministro dell'Altissimo, perché non essere unto con il mio sangue in difesa delle anime redente con il sangue di Cristo? Quale felicità morire in difesa dei diritti di Dio! Morire prima di rinnegare il Vicario di Cristo!». Ormai in carcere, scrisse le sue ultime parole: «Dichiaro di non aver commesso i delitti che mi vengono imputati. Sto nelle mani di Dio e della Vergine di Guadalupe. Domando a Dio perdono e perdono i miei nemici; chiedo perdono a tutti quelli che ho offeso». Condotto in un luogo vicino alla stazione di San José Vistahermosa, Morelos (Diocesi di Cuernavaca) fu sacrificato con un colpo alla nuca il 12 aprile 1927.
MARTIRIO DEL PADRE MALDONADO
DATI ANAGRAFICI DI NASCITA E DI MORTE
Il P. Pedro de Jesùs Maldonado Lucero morì nella città di Chihuahua l'11 febbraio 1937. Fu sacerdote della diocesi di Chihuahua e fino al momento della sua morte aveva esercitato il suo ministero nella vasta parrocchia di Santa Isabel, municipio ribattezzato dai rivoluzionari col nome del General Trias. La causa della sua morte fu un brutale e selvaggio pestaggio che gli causò gravissime lesioni al cervello e ferite in diverse parti del corpo. Questa successe nella sede del municipio General Trias il 10 febbraio, festa di Nostra Signora di Lourdes per la liturgia della Chiesa ed anniversario della ordinazione sacerdotale del P. Maldonado. La sua morte fu registrata nel libro n. 177 del registro civile della Città di Chihuahua nella sezione corrispondente alle morti. Il certificato di morte n. 171 della pagina 229 del menzionato libro recita: « Il giorno giovedì 11 febbraio del 1937 morì il sacerdote Pedro Maldonado, originario della città di Chihuahua ed abitante in General Trias. Seconda la lettera del Primo Tribunale Penale n. 106, sottoscritta dal giudice Lic. Ignacio Lomelì Jàuregui, l'autopsia di legge fu portata a termine dai medici legali. Essa accertò che la causa della sua morte furono le lesioni al cranio. Il giudice supponeva si trattasse di un omicidio. Lo stesso giudice dispose la inumazione del cadavere alle ore diciotto nel cimitero di Dolores nella tomba di proprietà della famiglia Enriquez, e che fosse senza numero».
Per il verdetto «post mortem» del giudice, basato sulla autopsia, fu un omicidio, un omicidio realizzato sotto la protezione della legge, come venne provato dai testimoni oculari e dai documenti relativi al caso.
Per il popolo di Chihuahua, come anche per i suoi fratelli sacerdoti e per il Vescovo Don Antonio Guìzar Valencia, il P. Maldonado fu martire. Questa stessa convinzione persiste ancora oggi tra i cattolici di Chihuahua, per cui la Diocesi ne iniziò il processo di beatificazione.
METODI BRUTALI DELL'ODIO RIVOLUZIONARIO
Il P. Maldonado fu l'unico sacerdote sacrificato durante i lunghi e tortuosi anni della persecuzione religiosa in Chihuahua e per questa stessa ragione il suo caso merita una speciale attenzione.
A parte la morte di Pancho Villa, l'assassinio del P. Maldonado commosse non solo il popolo di Chihuahua, ma anche molto più in là delle frontiere dello stato di Chihuahua e del Messico. Quel che più fece orrore alla gente furono i metodi bestiali e la brutalità senza misericordia impiegati nell'assassinio.
Il P. Maldonado fu assassinato nel tempo in cui, in generale, la persecuzione religiosa in Messico stava per terminare sotto il governo di Làzzaro Càrdenas.
In Chihuahua, alcuni mesi prima, Gustavo Talamantes era succeduto al dispotico Rodrigo M. Quevedo nella carica di Governatore dello Stato.
La commozione, che provocò l'assassinio del P. Maldonado, non portò beneficio al recente governo avviato da Talamantes e provocò scetticismo riguardo agli sforzi e alla sincerità di Càrdenas nel pacificare il Messico.
Elias Calles viveva in esilio negli Stati Uniti disonorando pubblicamente il Messico, dopo essere stato allontanato dal potere dal suo stesso figlio politico. Era accompagnato da Luís L. Leòn, ex governatore di Chihuahua e ministro del governo.
L'ombra di Rodrigo M. Quevedo perseguitava il governo di Talamantes, per il quale il Sindaco di Ciudad Juarez, fratello di Quevedo, era diventato un vero grattacapo.
I politici, che chiamavano se stessi «rivoluzionari», dalla notte al giorno diventarono ricchi, come anche i membri delle loro famiglie. La tortura e l'assassinio erano comuni nelle prigioni delle caserme di polizia, ugualmente come adesso. Le grida dei prigionieri erano soffocate dal rumore dei treni che passavano nel silenzio della notte nella città di Chihuahua.
NASCITA DEL P. PEDRO - NOTIZIE SULLA FAMIGLIA
Il libro n. 23 del registro civile delle nascite della Città di Chihuahua riporta la storia della nascita del P. Pedro Maldonado Lucero. Alla pagina 40 incontriamo il certificato n. 282 dal quale apprendiamo che il 15 giugno 1892 nacque un bambino a mezzogiorno nel rione San Nicolàs della Città di Chihuahua. Il padre del bambino era Apollinare Maldonado, operaio, nativo di Valle de Allende e la madre si chiamava Micaela Lucero, nativa di Parral, casalinga. I genitori diedero al bambino il nome di Pedro.
Non sappiamo molto circa Apollinare Maldonado, padre del bambino, tranne che la sua famiglia una volta era proprietaria di terreni nella zona di Valle Allende e che fu sepolto nel cimitero di «La Regia» in Chihuahua. Incontriamo inoltre che sua madre, Micaela Lucero, morì il 20 di dicembre del 1927, per un attacco di cuore, nel medesimo paese di Santa Isabel, dove il figlio era allora parroco.
La famiglia Maldonado Lucero era grande: Pedro ebbe molti fratelli e sorelle. Secondo il certificato di morte di Micaela, gli altri membri della famiglia furono: Jesùs, José Ramòn, Juan, Sofia, Josefa, Maria de la Luz e Florentina.
Il certificato di morte del P. Maldonado menziona soltanto Florentina. Secondo il certificato di morte di Micaela, Ramòn morì quando era bambino, mentre Florentina morì in età adulta, probabilmente nel 1918, in San Nicolàs de Carretas (Gran Morelos) prima parrocchia del P. Maldonado, quando la grande influenza, conosciuta come « La Gripa », la quale, angelo della morte, si abbattè sulla popolazione.
Si sa molto poco della famiglia, tranne che due cose: erano molto poveri ed erano cattolici praticanti. Il fratello maggiore di Pedro lavorò per un certo tempo come custode della Scuola Primaria nel paese di Aldama, vicino alla Città di Chihuahua. Luz,
Maria de la Luz, accompagnò il fratello fino al momento della morte e ricevette maltrattamenti dagli aguzzini di suo fratello.
Si suppone che gli altri membri della famiglia si siano sposati. Ugualmente si sa molto poco della infanzia e della fanciullezza del futuro sacerdote.
Fu battezzato nella allora parrocchia del Sagrario, adesso Cattedrale di Chihuahua, il 29 giugno.
SEMINARISTA
Secondo l'unico biografo del P. Maldonado, Mons. Martin L. Quiñones, apprese con diligenza il catechismo e fece con fervore la sua Prima Comunione. Da ragazzo frequentò una delle scuole fondate dal gesuita P. Pedro Delgado. Più tardi, a 17 anni, entrò nel Seminario Diocesano, fondato dal primo Vescovo di Chihuahua Don José de Jesùs Ortiz.
Le qualifiche del giovane seminarista erano buone e questi si guadagnò la stima dei suoi Superiori e dei suoi compagni per l'impegno, l'amabilità, l'allegria e la generosità.
Fece parte della Congregazione Mariana nella quale coltivò la devozione alla SS. Vergine. Coltivò anche una forte e fervente devozione al SS. Sacramento, devozione che manifestò chiaramente da Sacerdote nell'impegno apostolico di estenderla tra i suoi fedeli. Gli anni 1913-1914 furono di sofferenza e di brutti ricordi per il popolo di Chihuahua. Furono gli anni in cui Pancho Villa regnò con il terrore nella città e nello Stato. Gli studi nel Seminario furono interrotti e i seminaristi fuggirono a El Paso. Pedro, l'entusiasta e coraggioso seminarista, rimase con la sua famiglia nella sua modesta casa, in Chihuahua, capitale dello Stato. Di notte studiava a lume di candela e pregava con gli altri membri della sua famiglia davanti al SS. Sacramento, tenuto nascostamente nella sua casa.
ORDINAZIONE SACERDOTALE - PRIMI INCARICHI - ZELO PASTORALE
Nel 1917 fu ordinato diacono in El Paso, Texas, perché il Vescovo Don Nicolàs Perez Gavilàn, come molti altri Vescovi messicani, stava assente dalla sua diocesi. L'anno seguente, febbraio 1918, ricevette la ordinazione sacerdotale dalle mani del Vescovo Jesùs Schuler in El Paso, Texas. Nel marzo 1918 prese possesso della parrocchia San Nicolàs de Carretas e più tardi gli fu affidata anche la cura pastorale delle parrocchie vicine: San Lorenzo (Belisario Domìnguez) e San Francisco de Borja.
Subito dimostrò entusiasmo apostolico per la salvezza delle anime ed instancabile zelo nella amministrazione dei sacramenti durante la terribile influenza che flagellò la zona e tolse la vita a dozzine di suoi fedeli. Notte e giorno infatti si affannava nell'assistenza agli infermi.
Come devoto della Vergine, si assunse il compito di costruire un santuario alla Vergine di Guadalupe, che sfortunate circostanze non permisero di portare a termine.
Nel 1921 organizzò un pellegrinaggio da San Lorenzo a San Nicolàs de Carretas in riparazione della terribile offesa commessa contro la Vergine di Guadalupe, quando i nemici della Chiesa fecero porre una bomba sull'altare della Basilica in Città del Messico. Infuse nuova vita alle confraternite e alle pie associazioni, che già esistevano nelle sue parrocchie, e ne fondò di nuove.
Le molteplici attività e le dure condizioni, nelle quali era costretto a vivere, presto reclamarono la loro parte e la sua salute cominciò a declinare. Anche da seminarista era stato di salute delicata.
Nel dicembre 1922 fu trasferito alla parrocchia di Santa Rosa da Lima, nel centro minerario di Cusihuiriachi. Qui il suo zelo sacerdotale si adoperò per trarre fuori le sue pecorelle dal vizio della ubriachezza. In particolare mostrò amore e simpatia verso gli Indios Tarahumares, la cui presenza suscitava in lui molta commozione.
Nell'ottobre del seguente anno fu trasferito alla parrocchia del Santo Cristo di Burgos in Jimenez. Là fu perseguitato con rabbia dai massoni e visse in grande povertà. Un giorno fu afferrato e trascinato fuori del suo confessionale dai massoni e brutalmente percosso a causa del suo zelo sacerdotale.
Le battiture gli causarono problemi di salute e dovette essere di nuovo trasferito, dal Vescovo Don Antonio Guizar Valencia, alla parrocchia di San Nicolàs de Carretas.
Dopo un periodo di due anni fu nominato parroco di Santa Isabel.
SPLENDORE DI VITA APOSTOLICA A SANTA ISABEL
Per tredici anni il P. Maldonado attese alle necessità spirituali dei nuovi parrocchiani. Furono anni difficili per la Chiesa Cattolica ed, in conseguenza, anche per i fedeli di Santa Isabel e per il P. Maldonado.
Due grandi aspetti della sua vita rifulsero nel periodo del suo ministero sacerdotale in Santa Isabel: la sua vita di orazione ed il suo zelo apostolico.
Il P. Maldonado passava lunghe ore in ginocchio in preghiera davanti al SS. Sacramento. Da queste lunghe ore di adorazione e meditazione prendeva energia, dinamismo e vigore per predicare, insegnare, amministrare i sacramenti e sostenere la scuola parrocchiale.
Benché le sue attività apostoliche fossero molteplici e varie, tutte si incentravano in due temi principali: gli esercizi spirituali e la adorazione del SS. Sacramento. Organizzò esercizi spirituali per uomini, donne, ragazzi. Fomentò l'adorazione del SS. Sacramento tra uomini, donne e ragazzi fondando confraternite non solo nell'ambito della sua parrocchia, ma anche nelle parrocchie vicine di San Nicolàs de Carretas e di San Lorenzo. Così lo incontriamo nel fondare la Confraternita della Adorazione Notturna in Santa Isabel nel 1924 e nelle altre parrocchie nel maggio 1926.
La sua personale devozione alla SS. Vergine lo spinse a formare la Confraternita di Nostra Signora del Carmelo e l'Associazione delle Figlie di Maria. Aveva anche speciale devozione al Bambino Gesù ed a Santa Teresina.
Il P. Maldonado era sommamente sensibile alle necessità della sua gente. Soleva aiutare i poveri con denaro e vestiario ed egli stesso crebbe ed educò un povero orfano.
Gli piaceva visitare i campi nel tempo della raccolta ed i contadini gli chiedevano qualche volta di benedire i campi improduttivi per le invasioni delle cavallette. Sono molti a testimoniare che più di una volta liberò campi da questo flagello.
Ebbe interesse speciale per la educazione cattolica dei ragazzi, dei giovani, e degli adulti e spiegava loro la storia della salvezza servendosi di immagini luminose.
Il P. Pedro de Jesùs Maldonado Lucero non fece mai passare una opportunità per portare consolazione ai moribondi. Nè il freddo più rigido, nè il caldo più torrido, nè la pioggia, nè le lunghe giornate di viaggio, tanto nocive alla sua salute, nè la necessità imperiosa del riposo poterono mai dissuaderlo dal fare una visita per portare aiuto spirituale a qualche persona che stava morendo. Arrivò a mettere a repentaglio la propria vita, nei momenti in cui la persecuzione religiosa era al suo culmine, per aiutare una persona in agonia.
Il Venerdì Santo del 1936, mentre tornava al suo nascondiglio nella località chiamata «La Boquilla», circoscrizione parrocchiale di Santa Isabel, dopo una visita fatta ad una moribonda, nei pressi della stazione del treno del medesimo paese, subì una imboscata assieme ai suoi accompagnatori. Il giorno seguente si contarono nel luogo dell'imboscata più di duecento cartucce.
NEL MIRINO DELLA POLIZIA
I tre periodi della persecuzione religiosa videro il P. Maldonado fuggire continuamente dalla polizia e dagli agenti del governo. Quando era studente dovette fuggire dal Seminario e nascondersi nella umile e non sicura casa della sua famiglia. Il comportamento irreligioso delle truppe di Villa, l'eco delle cannonate, i lamenti dei moribondi e dei feriti, la distruzione degli edifici, l'emigrazione di famiglie intere, il regno del caos e del disordine lasciarono un profondo ed incancellabile ricordo nella sua mente.
Tra il 1926 ed il 1929, come fosse una bestia pericolosa, gli fu data costantemente la caccia da Francisco Ponce, capo della polizia rurale del governatore dello Stato Francisco Orozco.
Al P. Maldonado fu letteralmente impossibile rimanere nel distretto parrocchiale di Santa Isabel, dove viveva anche Ponce. Questi si diede alla caccia del Padre per le pianure di Ojo del Agua, per le montagne di Cusihuiriachi, per i colli di San Nicolàs de Carretas e di San Lorenzo.
Il P. Maldonado fu sempre in movimento con Ponce e la sua polizia a cavallo alle calcagna. Si rifugiò nelle caverne, nelle capanne, nelle stalle, nei pozzi, in camere protette da doppia parete. In una occasione fu necessario nascondersi in una capanna nei pressi di un lago, nelle vicinanze del villaggio chiamato San Juan Bautista. Là passò tutta la notte e tutta la mattinata del giorno seguente, mentre fuori la polizia di Francisco Ponce sostava sulle sponde del lago. Dio non volle che ispezionassero la capanna. Con frequenza il P. Maldonado si incontrò con i suoi persecutori senza che essi lo riconoscessero. In altre occasioni poté scappare per un pelo.
Nel 1927 fu accerchiato da Ponce e dai suoi uomini nella casa della famiglia Medina nel centro minerario di Cusihuiriachi. Il coraggio e la decisione di un «cristero» protesse la fuga del P. Maldonado. Ponce e i suoi uomini ebbero paura di scontrarsi col «cristero»; essi davano soltanto la caccia ai sacerdoti indifesi. Il P. Maldonado percorreva i colli tra Cusihuiriachi, San Lorenzo e San Nicolàs de Carretas, andando di villaggio in villaggio, celebrando la Messa nel silenzio e nella oscurità della notte, confessando, benedicendo nozze, battezzando, assistendo gli infermi e i moribondi.
Fu un instancabile apostolo di Cristo. In San Lorenzo si nascose nella casa della famiglia Trevizo ed in San Nicolàs de Carretas presso le signore Guadalupe Mendoza e Carmen Zubìa. Nel villaggio di Guadalupe, vicino a San Lorenzo, si rifugiò presso la famiglia Estrada ed altre volte in una vicina caverna. Gli toccò a volte di celebrare la Messa sulla roccia di un torrente o in una caverna.
ARRIVANO GLI ACCORDI TRA IL GOVERNO CENTRALE E L'EPISCOPATO
Gli « accordi» (arreglos) del 1929 sembrarono promettere una nuova era di libertà e di conciliazione tra la Chiesa e lo Stato in Messico. Il P. Maldonado tornò alla sua parrocchia di Santa Isabel e di nuovo assunse la direzione spirituale del suo gregge.
Tuttavia, l'odio versa la Chiesa non cessò con gli «accordi», nè cessò l'odio verso il P. Maldonado. Le autorità locali non avevano dimenticato l'opposizione del loro parroco al «club culturale» fondato e diretto da José Gil, simpatizzante di Calles ed anticlericale, che allora era l'esattore delle tasse nel paese di Santa Isabel. Il P. Maldonado giudicò il club immorale ed un pericolo per la fede del popolo. Da pastore responsabile avvertì i suoi fedeli del pericolo che quel club nascondeva. Ancor meno gli « agraristi» dimenticarono le critiche del P. Maldonado ai metodi ed alle ingiustizie impiegati nella confisca delle terre. Il P. Maldonado, seguendo le istruzioni del suo Vescovo e fedele agli insegnamenti della Chiesa, insistette che venisse osservata l'elementare legge della giustizia.
Quello che molestò gli «agraristi» e le autorità fu la critica che il pio sacerdote lanciava dal pulpito contro i mali del comunismo.
Apparentemente «gli accordi» misero fine alle lunghe e pericolose giornate del Padre lungo sentieri di montagna e di torrenti e misero fine anche alla sua vita nelle caverne con il rosario come unico compagno. Le lacrime, sparse fuori della cappella della Vergine di Guadalupe, non completata perché era stata chiusa dal governo, furono sepolte nel passato dagli «accordi».
Disgraziatamente i Vescovi furono ingannati dal governo. Calles aveva sete di altro sangue. Infedele alla parola, il governo, istigato dall'ebreo Elias Calles e dal comunista Morones, ricominciò la persecuzione contro la Chiesa. In Chihuahua il Congresso locale emise, il 7 dicembre 1931, un nuovo decreto per limitare a nove il numero dei sacerdoti col permesso di celebrare il culto nello Stato. Il decreto fu una doccia fredda per la Chiesa locale.
Tra il 1932 ed il 1934 la Chiesa di Chihuahua godette di una certa libertà. Il P. Maldonado continuò il suo ministero apostolico senza essere eccessivamente molestato in Santa Isabel. Nel 1934 il governo di Rodrigo M. Quevedo aumentò la pressione contro la Chiesa. Fino allora il Padre aveva continuato ad amministrare i sacramenti ai suoi parrocchiani, a porte chiuse.
Nel maggio di quell'anno, l'ispettore statale dei consigli municipali andò a Santa Isabel per assistere ad una sessione del Consiglio: il Governo dello Stato era stato informato che proprio in questo paese le leggi del culto venivano violate. Proprio durante la riunione del Consiglio le campane della chiesa suonarono per chiamare il popolo ad una sacra celebrazione. Qualche giorno più tardi il capo della polizia della Stato, Raùl Mediolea, venne a Santa Isabel, alla sede del Municipio. Il P. Maldonado fu chiamato. I ragazzi della scuola primaria stavano giocando nella piazza antistante il Municipio. Videro con orrore come la polizia spinse violentemente il Padre dentro un furgone che aspettava a motore acceso. Il furgone subito accelerò strascinando sul selciato i piedi dello sfortunato sacerdote.
Medialea chiuse il P. Maldonado nelle sordide prigioni della caserma della polizia in Chihuahua. Là stette isolato e fu sottomesso a lunghi e logoranti interrogatori. Mai gli fu data la facoltà di avere un avvocato difensore. Allora, la polizia non aveva alcun rispetto per i diritti della persona. La polizia, e specialmente il governo, erano la legge e gli unici che godessero di diritti.
Mediolea sottomise il P. Maldonado a tortura psicologica. A mezzanotte portò il Sacerdote, con una camionetta, attraverso oscuri e solitari sentieri, ad un certo punto si fermò, lo obbligò a scendere dalla macchina, poi formò il plotone di guardie per la fucilazione del Padre. Il parroco di Santa Isabel, ad imitazione di Cristo, aprì le braccia in forma di croce ed aspettò che fosse dato l'ordine di sparare. L'ordine non partì. Mediolea ammirò il coraggio dell'umile sacerdote.
Di seguito portò il Padre a Ciudad Juarez, al ponte di frontiera, e, commosso del suo lamentevole stato, gli diede alcune monete per il viaggio e la permanenza nell'esilio.
I Cavalieri di Colombo ricevettero il sacerdote esiliato all'altro lato del ponte e lo sistemarono presso la famiglia Ramirez.
IN ESILIO, MA PER POCO
Il P. Maldonado cominciò una nuova vita come molti sacerdoti suoi compatrioti e come il suo Vescovo. Tutti erano stati obbligati a lasciare il paese per il medesimo motivo: erano sacerdoti e questo era un crimine in Messico.
Il Padre però non poté facilmente adattarsi alla nuova vita in El Paso e rapidamente si ammalò. Aveva tanta nostalgia e stimava meno pericoloso vivere nella sua parrocchia che in El Paso. Pianse per il suo gregge di Santa Isabel, che, come pastore, amava profondamente. Il dolore per la separazione dai suoi fedeli era maggiore di quello fisico. Il santo sacerdote offrì a Cristo le sue sofferenze ed accettò con rassegnazione la volontà di Dio. Il Vescovo, Don Antonio Guìzar Valencia, comprendendo la sofferenza di quel buon sacerdote, gli concesse il permesso di tornare a Santa Isabel. Il P. Maldonado, travestito, passò il ponte che separava El Paso da Ciudad Juares. Una terribile febbre lo obbligò a rimanere a letto per tre settimane nel villaggio di Bobonoyaba, nei pressi di Satevò.
Debole ed ancora convalescente, si trasferì nel rancho detto «El Pino», proprietà della famiglia Nevarez, nel nord dello stato di Chihuahua, nei pressi di Cuahutemoc. Là visse, convalescente, per nove mesi.
Gli agenti del governo scoprirono il suo nascondiglio e col pretesto che c'era bisogno di un sacerdote per un ammalato, lo ingannarono e lo sequestrarono. Per la sua liberazione chiesero un riscatto di diecimila pesos, somma molto grande per allora. Per fortuna la famiglia Nevarez pagò il riscatto benché questo fosse un grande sacrificio per essa.
DI NUOVO NEL DISTRETTO PARROCCHIALE
In seguito, nel 1935, si trasferì nel villaggio chiamato «La Boquilla», dove visse presso la famiglia Loya. «La Boquilla» si trovava a poca distanza da Santa Isabel. Nella casa della signorina Margarita Loya il P. Maldonado amministrava i sacramenti. Là ebbe anche la possibilità di istituire una scuola per i bambini.
Il P. Maldonado, che già aveva provocato il disgusto degli agraristi, diede ancor più fastidio alle autorità locali ed ai maestri di scuola per la sua opposizione alla educazione sessuale e socialista. Consigliò i padri a non inviare i bambini alla scuola pubblica, che descrisse come immorale. Perciò essi cominciarono ad inviare i loro figli alla scuola fondata dal parroco alla quale badavano le sorelle Loya.
Nel marzo 1932 Francisco Ponce fu assassinato, assieme al genero Ramòn Dominguez Jr., mentre caricavano mais su un trenomerci. L'assassinio ebbe luogo nella oscurità della notte.
La morte di Ponce e di suo genero, che era segretario del Municipio, lasciò la porta aperta ad Andrés Rivera, ex colonnello villista, quale unico ed indiscutibile uomo forte della regione di Santa Isabel. Leader agrario e politico astuto, Rivera dominò la politica locale con mano di ferro. Era lui che prendeva le decisioni dietro il paravento dei sindaci. La sua parola era legge a Santa Isabel.
SINISTRI AVVERTIMENTI
Il Venerdì Santo 1936 chiesero al P. Maldonado di far visita ad una donna malata, che apparteneva alla famiglia Coronel, la quale aveva la sua abitazione nei pressi della stazione ferroviaria, vicino alla casa di Andrés Rivera. Il Padre era accompagnato dall'ex seminarista Augustìn Urbina e da due ragazze. Improvvisamente l'auto che portava il sacerdote subì un'imboscata, essendo stata presa tra due fuochi. L'imboscata ebbe luogo tra il terreno di Rivera e quello del padre di Urbina.
Il sacerdote stette fermo, mentre i suoi compagni tremavano di paura. Egli li tranquillizzò dicendo che non avrebbero sofferto alcun danno. Il giorno dopo il padre di Urbina contò duecento cartucce.
Gustavo Talamantes si recò a Santa Isabel, durante la campagna elettorale, per preparare la sua successione a Rodrigo M. Quevedo come Governatore dello Stato di Chihuahua. La sua permanenza nel paese lasciò un sapore amaro nella bacca di P. Maldonado e delle sorelle Loya. Infatti un colonnello dell'esercito si presentò in casa di quelle sorelle e redarguì il sacerdote, che osava celebrare il culto senza licenza del governo, e gli fece una sinistra e tenebrosa avvertenza: Stia attenta che le può succedere qualcosa.
Il P. Maldanado aveva chiesto a Dio il dono del martirio se con la sua morte avesse avuto fine la persecuzione religiosa: desiderava sacrificare la sua vita affinché la Chiesa potesse vivere libera.
L'anno 1937 ebbe un inizio tragico in Santa Isabel. Durante un ballo, che si teneva in casa della famiglia Coronel, il figlio dell'uomo forte, Andrés Rivera Jr., fu assassinato da membri della suddetta famiglia. Gli assassini erano stati Margarito e Delfino Coronel. Andrés Rivera Jr. era membro del Consiglio Comunale; il padre bramava vendicarsi per la sua morte.
IL LUNGO ATROCE MARTIRIO DEL P. MALDONADO
Arrivò il giorno fatale del 10 febbraio. La notte precedente il Mercoledì delle Ceneri un'aula della scuola primaria comunale fu danneggiata dal fuoco. La mattina del giorno 10, Mercoledì delle Ceneri, il Padre celebrò la messa ed impose le ceneri ai fedeli, poi sedette a confessare e a pregare nell'Oratorio della casa delle sorelle Loya. Quei giorno non fece colazione, essendo giorno di digiuno ed astinenza e primo giorno di Quaresima.
Quella mattina anche Tirso Trevizo, membro della Polizia Rurale locale, aveva assistito alla messa.
Quella stessa mattinata del 10 febbraio un amico del P. Maldonado, Don Jesùs J. Ortega, il quale era stato costretto ad emigrare al villaggio di El Charco perché veniva continuamente molestata dalle autorità municipali per i suoi stretti legami col sacerdote, si era recata a General Trìas (Santa Isabel) per regolarizzare alcuni suoi affari privati. Nel pomeriggio, senza alcun ordine di arresto, fu messo in carcere dalla polizia del paese. Due ore più tardi un altro amico del P. Maldonado, Genaro Calderòn, fu ugualmente messo in carcere dalla polizia.
I due furono portati alla sede del Municipio, dove Andrés Rivera suggerì loro di andare a casa delle sorelle Loya a « La Boquilla » per persuadere il P. Maldonado a presentarsi alla sede del Municipio essendoci un ordine di arresto per lui come sospettato autore dell'incendio avvenuto nella scuola locale.
Furono portati in camionetta a « La Boquilla », al rifugio del P. Maldonado, accompagnati da Rafael Armendàriz capo della polizia rurale, da venti poliziotti a cavallo e da Antonio Marquez, capo di un'altra scorta di uomini. Alcuni degli uomini che stavano agli ordini di Armendàriz furono: Tirso Trevizo, Cipriano Corona, Ramòn Morales, Guillermo J. Làzaro, Jesùs Flores e Alberto Lopez. Molti di loro furono visti bere tequila lungo la strada e continuarono a bere, fino alle tarde ore di quel giorno, dentro la sede del Municipio.
In casa delle sorelle Loya un gruppo di donne stava pregando nell'Oratorio quando la polizia, a cavallo e motorizzata, arrivò can Jesùs Ortega e Genaro Caldèron. Il sacerdote non stava solo dentro la casa, era presente infatti in quel momento un altro suo vecchio amico, Bonifacio Frescas, presidente dell’Adorazione Notturna. Genaro Calderòn era stato uno dei membri fondatori di questa confraternita nella parrocchia di Santa Isabel nel 1924.
Ed ecco come Armendàriz e Marquez portarono a compimento l'ordine di arresto n. 108. Il sindaco Jesùs Salcido, che era un burattino nelle mani di Andrés Rivera, aveva redatto l'ordine di arresto del sacerdote Pedro de Jesùs Maldonado perché aveva violato le leggi del culto, avendo celebrato la cerimonia del Mercoledì delle Ceneri.
La polizia arrivò e bussò alla porta di casa Loya. In quel momento P. Maldonado stava recitando l'Ufficio Divino. Le donne e le ragazze bloccarono l'entrata della casa, la qual cosa permise al sacerdote ed a Bonifacio Frescas di uscire dalla parte posteriore della casa e rifugiarsi nella stanza, usata come stalla, in fondo al giardino.
I poliziotti si infuriarono perché le donne rifiutavano di consegnar loro il sacerdote. In quel momento entrò in scena la sorella del Padre, che aveva visto passare la polizia davanti la sua casa.
I poliziotti, infuriati, proferirono una litania di insulti e bestemmie contro le donne, ma esse risposero con coraggio e mantennero la loro posizione.
Intanto Tirso Trevizo, membro della polizia rurale, salito su un albero, osservava con attenzione tutta la casa, poi annunziò di avere visto il sacerdote entrare nella stalla.
Immediatamente Rafael Armendàriz e i suoi poliziotti circondarono la stalla ed intimarono al sacerdote di uscire. Il sacerdote non obbedì, per cui Armendàriz, furioso come una bestia ferita, decise di spargere benzina attorno alla stalla e di appiccarvi il fuoco.
Mentre questo avveniva, tre donne lasciavano il gruppo di corsa con l'intenzione di chiamare per telefono il Governatore. Prese a sassate dalla polizia, una di esse fu ferita leggermente ad una gamba.
Jesùs Ortega, Genaro Calderòn e Luz Maldonado entrarono nella stalla per parlare col sacerdote e persuaderlo ad accompagnare i poliziotti alla sede municipale. Il Padre acconsentì, ma volle che la polizia si ritirasse dalla porta; poi domandò il suo cappello, si tolse la sottana e la consegnò a Bonifacio Frescas. Ugualmente chiese due teche per la comunione. Uscì quindi dalla stalla assieme a Genaro Calderòn, Jesùs Ortega e sua sorella. Fu arrestato assieme a Bonifacio Frescas.
Ebbe inizio così il lungo e tortuoso calvario di tre chilometri verso la sede del Municipio. Nel frattempo Armendàriz e Màrques saccheggiarono la casa rubando la macchina da scrivere del sacerdote ed il suo vestiario.
Intanto le linee telefoniche del rione Santa Sabina erano state tagliate per impedire le comunicazioni con Chihuahua. Le tre donne, che si erano staccate dal gruppo, non potendo usare il telefono, riuscirono a stento a trovare un mezzo di trasporto per Chihuahua, dove chiesero aiuto immediato al governatore Talamantes.
I tre chilometri verso la sede del Municipio diventarono per il P. Maldonado una vera via crucis. Camminava scalzo sotto l'ardente sole del pomeriggio, fustigato continuamente dalla polizia, la quale tentava di fare affrettare il passo a lui e al gruppo di donne spingendo alla carica i cavalli su di loro.
Il parroco recitava, come sempre, il rosario, suo compagno di tutti i viaggi; quelli della scorta mandavano maledizioni e si burlavano di lui.
Il Padre quel giorno non aveva preso neppure un boccone e chiese qualcosa da mangiare a un parrocchiano per mezzo. di sua sorella.
Arrivando alla sede del Municipio il sacerdote ebbe paura ed esitò ad entrare. Fu spinto con violenza dalla polizia ed entrò accompagnato dalle donne, dai bambini e da alcuni uomini.
La signorina Crescencia Venzor, Luz Maldonado, Jesùs J. Ortega, Merced Ortega, Juan Ortega e la vedova Josefa Venzor narrarono quello che successe là dentro.
Vicino alla scala che conduceva al primo piano, il P. Maldonado fu avvicinato dal sindaco Jesùs Salcido, dall'uomo forte locale Andrés Rivera e dal poliziotto Francisco Frescas. Rivera afferrò il sacerdote per i capelli strappandone un ciuffo, mentre gli diceva: Così volevamo afferrarti!
Luz Maldonado protestò contro il comportamento di Rivera, il quale, per tutta risposta, la schiaffeggiò. Luz cadde a terra svenuta. Allora P. Pedro intervenne per proteggere la sorella dai colpi, ma Rivera, Salcido e Frescas si lanciarono contro l'indifeso sacerdote e lo colpirono ripetutamente alla testa con le loro pistole. Il sangue cominciò a sgorgare in abbondanza dalle ferite. Il sacerdote, così gravemente ferito, cadde a terra.
Le donne volevano risparmiare altre percosse al P. Maldonado, ma, nel tentativo di intervenire, anche esse furono percosse ed alcune rimasero ferite. Quindi furono buttate fuori della casa municipale. Restarono dentro soltanto una ragazzina ed il custode dello stabile. Essi furono i testimoni oculari di quello che seguì. Frescas prese una corda e la legò al collo del sacerdote, che stava a terra gravemente ferito e semicosciente, poi lo strascinò fino al primo piano.
Di nuovo nella camera, che adesso è la biblioteca del Municipio, Rivera, Salcido e Frescas ed altri ancora, pieni di odio, continuarono la tortura spappolando il cervello del Padre can i medesimi continui colpi di pistola mentre imprecavano contro di lui e se ne burlavano sadicamente.
Il sacerdote fu lasciato a giacere, con la bocca all'insù, ad affogarsi nel proprio sangue. Aveva un braccio rotto e l'occhio sinistro sprofondato dentro il cranio, gli avevano rotto anche vari denti e le labbra erano rimaste tumefatte. In tutto il corpo aveva lividure e ferite.
Gli assassini del P. Maldanado passarono il resto del giorno e della notte ad ubriacarsi.
Per evitare che il sacerdote morisse soffocato dal suo stesso sangue, il custode dello stabile lo rivoltò a bocca in giù. Un lago di sangue immediatamente coprì il pavimento di legno e le macchie stanno ancora lì come muti testimoni.
Caduta la notte, una camionetta della polizia arrivò da Chihuahua per trasferire il prigioniere alla capitale. Gli agenti di polizia inviati rimasero sorpresi al vedere il lamentevole stato in cui si trovava il prigioniero. Temendo che morisse durante il viaggio, esigettero un documento firmato dalle autorità locali a conferma della delicata condizione del parroco.
Il P. Maldonado fu ricoverato nell'ospedale civile dello Stato. Il Vescovo, Don Antonio Guìzar Valencia, fu informato ed immediatamente mandò due sacerdoti, Francisco Espino Porras e Sisto Gutierrez, per investigare sul fatto ed assistere il ferito. Il P. Sisto Gutierrez rimase col P. Maldonado tutta la notte fino alla sua morte, avvenuta alle prime ore del giorno seguente: era l'11 febbraio 1937.
IL TRIONFO DEL MARTIRE
Questo 11 di febbraio fu un giorno triste per i cattolici di Chihuahua ed al tempo stesso un giorno di gloria.
Dopo l'autopsia il giudice del registro civile redasse il certificato di morte e autorizzò il seppellimento per le ore 6,00 del pomeriggio nel cimitero di Dolores, nella tomba della famiglia Enriquez.
Il corteo funebre accompagnò il feretro dalla residenza del Vescovo fino al cimitero. Migliaia di cattolici lo accompagnarono gridando «Viva Cristo Re » e recitando il rosario. La gente, scossa e addolorata per l'attacco barbaro e brutale, di cui era rimasto vittima il sacerdote, si fermò a cantare inni alla Vergine davanti la tomba.
Lo stesso giorno Don Antonio Guìzar Valencia, che aveva sofferto sulla sua pelle le ansietà della persecuzione, esclamò davanti ai suoi sacerdoti: «Quanti martiri ancora mi regalerà Dio tra voi? ».
L'ODIO DEI NEMICI NON DISARMA
Intanto i carnefici del Padre ostentavano pubblicamente il loro sadismo. Andrés Rivera si compiaceva nel mostrare l'orologio del sacerdote morto; Antonio Màrquez si vantava di usare la sua sciarpa ed il suo cappotto; il maestro Miramontes, della scuola arimaria, si impadroniva della macchina da scrivere, mentre il sindaco ed i suoi collaboratori dividevano tra loro il suo vestiario.
Presto si ebbero le reazioni di diversi settori della società. Il governatore dello Stato, Gustava Talamantes, giustificò l'assassinio in una intervista, rilasciata per il periodico Catholic Post di El Paso Texas, affermando che il P. Maldonado era colpevole di avere violato la legge del culto. H. Laborde, capo del partito comunista, si congratulò con gli aggressori, qualificò come eroico il loro crimine e li chiamò « camerati ».
La stampa nazionale parlò dell'assassinio nelle prime pagine dei periodici, riportando le fotografie del sacerdote morto e mettendo in evidenza la maniera terrificante dell'assassinio.
CHIHUAHUA CATTOLICA RIPRENDE IL SUO CORAGGIO
Il 14 febbraio la popolazione cattolica di Chihuahua manifestò il suo disgusto e la sua disapprovazione con una marcia. Era Domenica. Le autorità municipali negarono il permesso della marcia di protesta adducendo come ragione che il sindacato dei ferrovieri aveva in programma una marcia per lo stesso giorno. - I ferrovieri in verità non tennero la loro manifestazione fino alla domenica seguente. - Gli organizzatori cattolici però ricorsero al governatore Talamantes. La risposta fu ancora negativa per la marcia, ma egli permise che la gente si riunisse nel parco Lerdo, con la condizione che l'assemblea dovesse essere sciolta entro le ore 12,30.
La moltitudine, calcolata tra le cinquanta e le centomila persone, non poteva essere contenuta nei limiti angusti del parco Lerdo.
Alle ore 11,00 a.m. la gente intraprese la marcia spontaneamente. Dal parco Lerdo la folla dilagò lungo la Avenida Independencia ed arrivò fino alla Plaza de la Constituciòn (Plaza de Armas). Là, davanti al Palazzo Municipale, vari oratori arringarono l'immensa folla. La signorina Isabel Torres e Antonio Leòn assicurarono la folla che il Governatore non aveva avuto nulla a che vedere col crimine commesso in General Trias (Santa Isabel), però esigevano giustizia col castigo dei responsabili. Nello stesso tempo chiedevano il ripristino del culto pubblico nello Stato.
La marcia continuò nonostante gli sforzi per impedirla da parte della polizia locale, montata a cavallo. Il sindaco Manuél Lòpez Dàvila fu informato che proprio sua moglie era una dei capi della marcia di protesta.
Vedendo l'impressionante grandezza del corteo, le autorità statali e municipali preferirono abbandonare la città.
I manifestanti imboccarono la Calle Libertad e la Vicente Guerrero fino alla Plaza Hidalgo. Là, davanti al Palazzo Federale, Alfonso Arronte, Luìs Batista e Benjamìn Elias parlarono ai cattolici. Tutti gli oratori erano membri dell'Azione Cattolica. Il discorso più accalorato fu quello di Benjamìn Elìas, il quale esortò le autorità a soddisfare le lamentele della popolazione cattolica. Ricordò alla moltitudine che essa esprimeva i sentimenti della maggior parte del popolo di Chihuahua e lamentò che le campane delle chiese dello Stato, specialmente quelle della Cattedrale, che avevano suonato per celebrare la vittoria dell'esercito messicano sui francesi, adesso restassero mute.
Le parole di Elìas provocarono nella moltitudine un sentimento di irrefrenabile entusiasmo, per cui tutti in massa si diressero verso la Cattedrale per suonare le campane; altri piccoli gruppi si diressero verso altre chiese con lo stesso scopo.
Mentre le campane della Cattedrale suonavano per la prima volta dopo tre anni, la moltitudine cantava l'inno nazionale.
Il giorno seguente il Sindaco chiamò rozzi e ignoranti cattolici e li accusò di avere impiegato la violenza, di avere calpestato la polizia e la guardia rurale, che cercavano di bloccare la marcia. Si operarono vari arresti per aver violato la legge sul suono delle campane e per avere disobbedito alle autorità. Gli arresati furono: Antonio Leòn, Alfonso Arronte, Luìs Batista, Anastasio Olmedo, Benito Flores, Conrado Aguirre, Jesùs Rìos, Carlos Castaneda, J. Flores, Eugenio Gardea, Antonio Elizalde, Manuel Cerna, Reynaldo Lechuga, Alejandro Calderòn, José C. Lara, José G. Gandarilla e Susana Martinez. Tutti furono multati.
A causa della pressione popolare, il Governo dello Stato ordinò una inchiesta giudiziale circa la morte del P. Maldonado. L'inchiesta avvenne nella sala del primo tribunale penale, dove furono convocati tutti quelli che vi erano coinvolti: assassini e testimoni. Ai primi di marzo l'agente del ministero pubblico, Victoriano Gonzalez Amaya, inviò il risultato dell'inchiesta al Procuratore Generale dello Stato. Tutto si fermò qui. Gli assassini del P. Maldonado non ebbero mai un processo, come era richiesto dalla legge, anzi continuarono a seminare terrore nel General Trias (Santa lsabel) e nelle zone intorno sotto la protezione della legge medesima. Il Governatore dello Stato dichiarò alla stampa nord-americana che il P. Maldonado aveva ricevuto quello che aveva meritato e che gli uomini coinvolti nella sua morte. non erano assassini.
Gustavo Talamantes premiò Andrés Rivera e Jesùs Salcido nominandoli membri del comitato per la scuola di General Trias. Gli stessi assassini batterono selvaggiamente un umile operaio, di soprannome El Pàjaro, solo perché era stato amico del sacerdote assassinato. Lo frustarono fino a farlo sanguinare. Potevano fare qualunque cosa perché non erano sottoposti alla legge, certi che mai sarebbero stati processati secondo la legge, come in realtà mai lo furono: essi erano la legge in General Trias.
FECONDITÀ DEL SANGUE DEL MARTIRE
In vita il P. Maldonado aveva espresso il desiderio del martirio se con esso fosse terminata la persecuzione religiosa. Ambedue i desideri furono esauditi. Sparse il sangue e sacrificò la sua vita adempiendo ai suoi obblighi sacerdotali nell'amministrazione dei sacramenti e nella celebrazione del culto, come disse l'allora Procuratore Generale dello Stato all'incaricato del Governo, Francisco R. Almada. Tutto quello che fece fu eseguire quello che gli era stato ordinato, affermò il Vescovo nel 1936 quando gli era stato chiesto di ritirare il P. Maldonado dalla parrocchia di Santa Isabel.
Il suo sacrificio non fu vano.
Il 26 aprile 1937, il Governatore Gustavo Talamantes firmò la richiesta con la quale si autorizzava il Vescovo Don Antonio Guìzar Valencia a celebrare il culto nello Stato di Chihuahua. Il 1° maggio le campane della Cattedrale suonarono di nuovo per chiamare i fedeli alla Messa, senza nessuna obiezione da parte del Consiglio Municipale e del Sindaco.
Lo stesso mese di maggio, il giorno 4, la Suprema Corte della Nazione ratificò la protezione concessa a tre sacerdoti in Ciudad Juarez e nel medesimo tempo concesse protezione contro gli atti del Congresso locale, contro il Governatore e contro il Sindaco di Ciudad Juarez, José Queveda, fratello del nefasto Radrigo M. Quevedo: Il decreto n. 183 del 1936 fu dichiarato anticostituzionale.
Il 15 luglio (1937) in Ciudad Juarez le campane suonarono annunciando l'inizio del culto pubblico. Due giorni prima, il 13, il Governatore dello Stato aveva presentato al Congresso locale un nuovo decreto, il 91, che annullava i precedenti decreti ed elevava di cinque il numero dei ministri che potevano esercitare il culto nello Stato. Questo decreto è ancora vigente nello Stata di Chihuahua.
Nella relazione di quell'anno al Congresso locale, la prima del suo periodo di governatorato, Talamantes evitò ogni genere di aggressività, di insulti e di attacchi alla Chiesa e al clero. Evitò anche ogni accenno alla morte del P. Maldonado,
Alla data del primo anniversario della morte del sacerdote, il culto pubblico era già stato reintrodotto in tutta lo Stato di Chihuahua ed era evidente che le autorità rinunciavano ad ogni violenta persecuzione nei riguardi della Chiesa Cattolica.
MISERANDA FINE DEGLI ASSASSINI
Il colonnello Andrés Rivera fu la personalità di spicco tra gli assassini del P. Maldonado. Prima del 1910 scorazzava per le montagne e i campi di Chihuahua in compagnia di Pancho Villa rubando bestiame e saccheggiando. Trascorse quegli anni sfuggendo alla legge. La rivoluzione del 1910 permise a lui, come anche a Villa, di rifarsi una verginità morale per la sua qualità di rivoluzionario ed ebbe il grado militare di colonnello.
Rivera era un ambizioso ed era geloso di Villa. Questi gli aveva affidato la custodia delle armi, delle munizioni e del denaro. Tradì Villa rubando il denaro, le armi e le munizioni e fuggendo poi negli U.S.A., da dove non fece ritorno fino alla morte del guerrigliero.
Al suo ritorno possedeva una certa ricchezza, che gli permise di comprare terre in Santa Isabel e di convertirsi in un agricoltore influente in quella regione.
Da politico opportunista appoggiò Calles durante la rivoluzione di Escobar e questo gli aprì le porte al Consiglio Comunale e alla carica di Sindaco nel 1927.
Nel 1932 fu delegato e sottosegretario al Congresso agrario. Negli anni successivi il suo potere fu illimitato e di nuovo occupò la carica di Sindaco nel 1941. Tra la gente del luogo (Santa Isabel) rimase famoso per i suoi metodi brutali ed era temuto da tutti quelli che lo conoscevano. Gli si attribuì l'assassinio di molti oppositori politici.
Durante la campagna presidenziale di Avila Camacho si allineò col candidato del partito ufficiale e perseguitò ferocemente quelli che appoggiavano Almazàn, il candidato della opposizione. Di fatto in General Trias (Santa Isabel) furono assassinate varie persone del partito di Almazàn.
Spirò nel 1917. La sua morte fu indescrivibilmente dolorosa e orribile. Lasciò questa mondo nella solitudine e nell'abbandono perfino dei propri familiari.
Anche Jesùs Salcido ebbe una triste fine. Un toro, che era ritenuto domato, gli infilò le corna dentro la testa spargendo attorno le sue cervella.
Antonio Màrquez, che era stato sindaco di Trias nel 1928, ebbe ugualmente una fine violenta.
José de Jesùs Jàquez, altro torturatore del P. Maldonado, spirò tra orribili sofferenze.
LA GUERRA, LA RIVOLTA E IL CRISTIANESIMO
A ottant'anni dalla fine della guerra cristera
ZENIT.org - lunedì, 19 ottobre 2009
Parla il sacerdote Juan González Morfín
di Jaime Septién
QUERÉTARO - A 80 anni dalla fine ufficiale della cosiddetta “guerra cristera” in Messico (1926-1929), padre Juan González Morfín, laureato presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma e docente all'Università Panamericana di Città del Messico, ha scritto un vibrante saggio sulla liceità morale della sollevazione cristera.
Saggio pioniere nel suo genere, “La guerra cristera y su licitud moral” (Porrúa, 2009) diverrà un riferimento obbligatorio per chiunque voglia addentrarsi nello studio di questa epoca difficile per il Messico, in questa guerra motivata dall'intransigenza del Governo del generale Plutarco Elías Calles (1924-1928) e del suo successore, Emilio Portes Gil (1928-1930), riguardo alla libertà religiosa e alla libertà dei fedeli.
In questa intervista, padre González Morfín parla di questo importante anniversario.
Cosa dicono il Magistero, la dottrina e la tradizione del pensiero cristiano su un'azione armata come la guerra cristera in Messico, terminata 80 anni fa?
P. Juan González Morfín: Nel momento in cui alcuni cattolici messicani optavano per la difesa armata per recuperare diritti che erano stati strappati loro, il Magistero della Chiesa era unanime nel condannare qualunque insurrezione armata contro il potere costituito per i mali maggiori al bene comune che sarebbero derivati. Non c'era ancora quella che si potrebbe definire una “dottrina cattolica sulla resistenza armata”. Ad ogni modo, in alcuni libri di morale si iniziava a proporre che, se si compivano le condizioni che facevano considerare giusta la difesa armata di un Paese contro un aggressore ingiusto, si poteva ritenere giusta la sollevazione di un popolo contro un Governo che si era trasformato in un ingiusto aggressore.
Era soprattutto una soluzione teorica e le condizioni segnalate erano andate evolvendosi nel corso di vari secoli, ma nella pratica c'erano molti problemi: come si poteva garantire che i mezzi pacifici fossero stati esauriti? Che tipo di aggressione, o che tipo di diritti dovevano essere coinvolti perché si considerasse necessario il ricorso alle armi? Chi poteva esortare alla sollevazione? Come si vede, la risposta non era così semplice. Ne “La guerra cristera y su licitud moral” presento un ampio studio sulla questione, che, tuttavia, non è né esaustivo né pretende di dire l'ultima parola.
Quale fu la base sociale del movimento cristero?
P. Juan González Morfín: La guerra cristera è stata una sollevazione popolare nel vero senso della parola: ha coinvolto tutte le fasce sociali, il che non vuol dire che tutti abbiano partecipato nella stessa proporzione. Le prime sollevazioni, a Zacatecas, sono state di contadini che, abituati a difendersi dalle bande di malviventi che li assalivano continuamente in quell'epoca di grande anarchia, videro la necessità di difendersi dal Governo che impediva loro di praticare la religione.
La causa scatenante della sollevazione del generale Pedro Quintanar fu un'aggressione dei soldati contro una folla di cattolici. Dopo pochi giorni si unì a lui il generale Aurelio Acevedo con alcune decine di persone che ritenevano necessario sollevarsi quanto prima perché le truppe governative stavano confiscando le armi con cui si difendevano abitualmente dalle bande di ex rivoluzionari e capivano che se se le lasciavano senza armi sarebbero rimaste indifese di fronte a qualsiasi arbitrio del Governo, che “aveva già chiuso le chiese”, per cui decisero di lottare in difesa della loro fede, senza avere una prospettiva chiara di ciò che avrebbe potuto ottenere un numero così esiguo di persone.
L'insurrezione del 1926 si estese rapidamente?
P. Juan González Morfín: Sollevazioni simili quanto ai motivi si verificarono in varie zone in quei mesi che seguirono la sospensione del culto, cioè dall'agosto 1926. Allo stesso tempo, iniziarono le azioni di persecuzione più ripugnanti contro la popolazione cattolica, per cui le sollevazioni aumentarono: in quei primi momenti troviamo già gente che non apparteneva più al ceto contadino, come i fratelli Navarro Origel, di Pénjamo, Guanajuato; Carlos Díez de Sollano, anch'egli a Guanajuato; i Guízar, nella zona di Cotija, Michoacán; una trentina di giovani delle famiglie ricche di Piedras Negras, Coahuila. Si potrebbero indicare molte altre persone di classe medio-alta e alta, così come molte altre della classe media, presenti fin dall'inizio della guerra cristera. Per ragioni semplicemente matematiche, la percentuale più elevata dei protagonisti della sollevazione era di origini contadine.
Cosa distingue quello cristero da altri movimenti cosiddetti “rivoluzionari”? Il fatto che non voleva sovvertire né l'ordine sociale né il potere, ma che aspirava a vedersi permesso il ritorno alle pratiche di fede?
P. Juan González Morfín: Gli stessi cristeros molte volte respinsero, come attacco, il fatto di essere definiti “rivoluzionari”. L'obiettivo della loro resistenza non era cambiare il regime politico attraverso le armi, ma vedersi restituire i diritti di cui erano stati privati; per questo, quando pensarono di riavere la possibilità di tornare a praticare la propria fede liberamente consegnarono le armi. In questo senso, è interessante la testimonianza del responsabile militare degli Stati Uniti al termine della guerra cristera: “Ci si aspettava che, terminata la guerra, un gran numero di cristeros si desse al banditismo. Ma non accadde”.
Che ruolo giocarono i Vescovi e i sacerdoti nella guerra cristera e negli “arreglos” (accordi) del 1929?
P. Juan González Morfín: Quando avevano iniziato a proliferare le sollevazioni dei cattolici che cercavano di difendere la propria fede con le armi, la Lega Nazionale per la Difesa della Libertà Religiosa, associazione civica laica fondata verso il 1925, volle guidare i vari movimenti per dar loro una certa organizzazione. In quel momento si chiese il sostegno dell'episcopato in vari sensi, ma l'unica cosa che si ottenne fu una specie di impegno a non condannare il movimento armato.
Per i quasi tre anni in cui durò la lotta armata, la maggior parte dei Vescovi rimase in esilio ed effettivamente non condannò mai la difesa armata. Uno di loro, l'Arcivescovo di Durango, monsignor José Ma. González y Valencia, si vide nella necessità di rispondere alla domanda esplicita di quanti si erano sollevati e il senso della sua risposta fu che, non avendo loro provocato l'aggressione, avendo poi esaurito tutti i mezzi pacifici e difendendo diritti veramente irrinunciabili per loro e per i loro figli, come il diritto di praticare la loro religione, coloro che si erano sollevati potevano avere la coscienza tranquilla. I sacerdoti in quell'epoca non tanto di guerra, ma di terribile persecuzione, si impegnarono a nascondersi.
Erano tempi molto difficili per il sacerdozio...
P. Juan González Morfín: Con il rischio di perdere la vita, come di fatto accadde a molti, in sacerdoti facevano fronte clandestinamente alle richieste dei fedeli. Alcuni di loro, meno di cinquanta, esercitavano il ministro tra gli insorti in qualità di cappellani castrensi. Pochi, meno di dieci, arrivarono anche a impugnare le armi.
E il ruolo dei Vescovi negli “arreglos”?
P. Juan González Morfín: Sugli “arreglos” la spiegazione non è così semplice, perché in genere si dà per scontato che i Vescovi intervennero per patteggiare la pace con il Governo senza tener conto degli insorti, ma non andò proprio così. E' un tema complesso e difficile da spiegare i poche parole, soprattutto in modo convincente. Alcuni dirigenti cristeros, tra cui lo stesso generale al comando, Enrique Gorostieta, confessavano nella loro corrispondenza privata la necessità di arrivare a un accordo di pace.
Ciò che i Vescovi patteggiarono con il Governo di Portes Gil fu soprattutto un contesto di applicazione delle leggi che permettesse loro di esercitare il ministero senza essere soggetti all'autorità civile in questioni di disciplina esterna, cioè si arrivò a un “arreglo” che permetteva loro di riprendere il culto. Le basi del congedo dei cristeros furono negoziate da colui che in quel momento era il generale capo dell'esercito cristero, Jesús Degollado Guízar, che in precedenza aveva concordato con il comitato di guerra della Lega un documento che accettò integralmente il Governo di Portes Gil. Quelle basi in un primo momento furono rispettate, ma poco tempo dopo iniziò la mattanza selettiva di tutti coloro che avevano occupato qualche incarico nel movimento armato. Insisto sul fatto che non è semplice da spiegare in poche parole.
E Roma?
P. Juan González Morfín: I Vescovi avevano chiesto al Papa l'autorizzazione a sospendere il culto; era logico che la chiedessero anche per ripristinarlo, soprattutto se le condizioni che avevano portato alla sospensione non solo non erano migliorate, ma anzi si erano estremamente aggravate. Per questo, per permettere il ripristino, si chiese l'autorizzazione della Santa Sede, che suggerì che qualsiasi accordo al quale si fosse arrivati rispettasse queste condizioni: a) una soluzione pacifica e laica; b) amnistia completa per Vescovi, sacerdoti e fedeli; c) restituzione di proprietà come chiese, seminari, case di Vescovi e sacerdoti; d) che la Sante Sede potesse avere relazioni senza alcuna restrizione con la Chiesa messicana.
Si può dire che i Vescovi, spinti dal bene che la pace avrebbe portato ai loro figli, da quasi tre anni privati dell'ausilio dei sacramenti, si rassegnarono ad accettare molto meno di ciò che la Santa Sede aveva indicato. Per farsi un'idea più completa dell'azione della Sede Apostolica nel conflitto, raccomando la lettura di “El conflicto religioso en México y Pío XI” (Minos, 2009), un libretto che ho pubblicato qualche mese fa.
Quali insegnamenti lascia la guerra cristera?
P. Juan González Morfín: Bisogna continuare a studiare questo tema, perché fino a pochissimo tempo fa era quasi proibito dalla storiografia – ufficiale e non –, forse per il tanto dolore che ha provocato. Vorrei cambiare un po' la domanda e rispondere, in un modo che forse io stesso dovrei correggere una volta approfondito il tema, parlando più che degli “insegnamenti” delle “conseguenze”; e in questo senso posso dire che la guerra cristera aiutò enormemente il rafforzamento della fede dei messicani. Nei territori del nostro Paese in cui si svolse, attualmente la pratica religiosa è più estesa e più consolidata. Il sangue di molta gente morta a causa della fede continua a dare frutti.
A suo avviso, la sollevazione cristera è stata lecita moralmente parlando?
P. Juan González Morfín: Papa Pio XI, in un'Enciclica scritta nel 1937, cioè otto anni dopo la fine della guerra cristera, diede ragione ai Vescovi che non condannarono l'insurrezione, spiegando che “non si vede come sarebbe stato possibile allora condannare il fatto che i cittadini si unissero per difendere la Nazione e difendere se stessi con mezzi leciti e appropriati contro coloro che si avvalevano del potere pubblico per portarla alla rovina”. Questo è in qualche modo una conferma a posteriori del fatto che la difesa armata intrapresa da alcuni cattolici messicani in difesa della libertà religiosa non si può condannare come un'azione immorale; ad ogni modo, con ciò non si vuol dire che tutte le azioni intraprese dai cristeros siano state moralmente lecite.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
È giusto per un cristiano imbracciare le armi per difendere la propria libertà religiosa?
Cristiada è un film che racconta la guerra civile messicana che vide contrapposti il governo laicista e i cristeros. Già presentato negli Stati Uniti e in Messico non ha ancora trovato un distributore italiano
di Franco Olearo tratto da ZENIT.org – Fra il 1926 e il 1929 si svolse in Messico una guerra civile che vide da una parte il governo laicista del presidente Plutarco Elia Callés e dall’altra i cosiddetti Cristeros, gruppi armati che cercarono di far abolire le leggi antireligiose in vigore. La guerra ebbe toni particolarmente violenti e in seguito alcuni dei più significativi protagonisti vennero proclamati beati o martiri.
Il film ricorda a tutti il valore della libertà religiosa, condizione indispensabile per una pacifica convivenza
For a greater glory, (nella versione in spagnolo: “Cristiada”) è un kolossal storico che ricostruisce la guerra civile che si svolse in Messico dal 1926 al 1929 fra il governo massonico e filo-sovietico del presidente Plutarco Elia Callés e i cosiddetti Cristeros, gruppi armati che cercarono di far abolire le leggi restrittive sul culto cattolico.
E’ giusto per un cristiano imbracciare le armi per difendere la propria libertà religiosa? Può un sacerdote prendere le armi e diventare un generale rivoluzionario? Fino a che punto e in che modo la Santa Sede può ritenersi rappresentante dei fedeli cattolici nei confronti di un paese avverso, rischiando possibili rappresaglie locali?
Sono queste le domande impegnative che scaturiscono dal film, che è al contempo un ricordo di tanti sacerdoti, intellettuali o semplici contadini che in quelle circostanze persero la vita come martiri per non ripudiare la loro fede.
Il film, necessariamente sintetico, inizia da quando nel 1926 il presidente Callés, sicuramente con scarso senso di opportunità politica nei confronti di una popolazione con radicate tradizioni cattoliche, decise di mettere in atto le misure restrittive sul culto già definite nella costituzione repubblicana del 1917 ma non ancora applicate.
In realtà il conflitto stato-chiesa si protraeva da anni: la posizione preminente delle istituzioni ecclesiastiche nell’istruzione e nella cultura, eredità del dominio spagnolo appariva, agli occhi dei rivoluzionari messicani, un ostacolo alla indipendenza nazionale e una minaccia proveniente da un potere straniero (il Vaticano). Appena un anno prima era stata posta una bomba davanti all’immagine della Madonna di Guadalupe, per fortuna senza danneggiarla.
I cattolici, riuniti nella Lega Nazionale per la libertà religiosa, iniziarono dapprima forme pacifiche di protesta (raccolta firme, boicottaggio economico) poi, di concerto con il Vaticano, decisero di attuare un gesto pacifico ma estremo: la sospensione di ogni servizio religioso a partire dal 1° agosto 1926.
Poco dopo, in data 18 novembre, con l’enciclica Iniquis Affictisque, il Papa Pio XI denunciò con forza la persecuzione in atto contro i cattolici da parte della “sfrenata tirannide degli avversari” e in particolare sottolineò che dopo quel 1° agosto si era toccato “il colmo dell’empietà, giacché vengono assaliti improvvisamente i sacerdoti quando celebrano, in casa propria o altrui; viene turpemente oltraggiatala santissima Eucaristia e gli stessi sacri ministri vengono condotti in prigione”.
La lettera enciclica non conteneva alcun messaggio esplicito che esortasse i cattolici messicani a rinunciare ad azioni violente.
L’effetto combinato di questi eventi portò alla decisione dei più che era giunto il momento di imbracciare le armi. Il governo ne approfittò per usare il pugno di ferro non solo contro i combattenti ma anche contro la popolazione è iniziò la macabra consuetudine di impiccare i cristeros ai pali della luce perché tutti potessero vederli. Ma anche i cristeros commisero degli errori: il maldestro generale-sacerdote José Reyes Vega non riuscì ad evitare che 51 passeggeri di un treno preso d’assalto finissero bruciati vivi.
Il film riesce a dominare bene la complessa materia narrativa e lo fa concentrandosi su pochi personaggi-chiave: il presidente messicano Callés, fanatico ma astuto; l’ambasciatore americano Morrow, che aveva l’obiettivo primario di conservare per il suo paese le concessioni per l’estrazione del petrolio ma al contempo si preoccupava di svolgere una funzione mediatrice nel conflitto; González Flores, che difese la causa cattolica come non combattente; infine il generale Gorostieta Velarde, interpretato da Andy Garcia, il personaggio più riuscito, esperto stratega, che svolse con impegno e professionalità il mestiere di comandante dell’esercito dei cristeros, senza essere cattolico ma cosciente dell’importanza della libertà di espressione religiosa.
Il film appare come diviso in due parti. La prima racconta le fasi precedenti al conflitto, le discussioni animate su modo più giusto di reagire fra le diverse espressioni cattoliche (i governativi sono sempre schematizzati come cattivi) ed è la parte più avvincente, dai connotati realistici.
Nella seconda prende il sopravvento l’epica delle operazioni militari, il frasario acquisisce toni enfatici (Gorostieta si dichiara combattente per la difesa di tutte le libertà) e viene portata in primo piano la storia di José Sanchez del Rio, un ragazzo di quattordici anni che torturato dai governativi, invitato ad abiurare la sua fede anche davanti ai genitori, viene infine ucciso.
Il fatto è accaduto realmente (il ragazzo è stato beatificato da Benedetto XVI nel 2005 ) e non si può certo dire che ciò che viene messo in scena non corrisponda al vero ma le scene ripetute e insistite sulle sevizie subite dal povero ragazzo finiscono per alimentare nello spettatore più indignazione e odio verso i suoi carnefici che gioia per la gloria di un beato.
Il film è stato qualificato negli Stati Uniti come Restricted proprio per queste scene.
Il film si conclude con l’accordo di tregua stabilito nel 1929 fra la Santa Sede né entra in ulteriori dettagli. Nella realtà l’accordo venne percepito come un’ingiustizia da molti cristeros dal momento che la guerra stava volgendo a loro favore; inoltre gli accordi di immunità siglati dal governo non furono rispettati e molti cristeros, deposte le armi, furono catturati e uccisi. Anche molti sacerdoti di fatto non poterono tornare alle loro parrocchie.
Ciò provocò una seconda rivolta, di minori dimensioni, nel ’34; il Papa scrisse sul tema altre due encicliche, nel ’32 e nel ’37 ma a nulla valsero gli appelli a porre fine alle persecuzioni.
Il film mostra tutto il coraggio che è stato sicuramente necessario per ricordare questi avvenimenti gloriosi e tristi al contempo che sicuramente hanno fatto e fanno discutere ma ci consente di riflettere su come la libertà religiosa non sia una esigenza di “secondo livello” ma costituisce una aspirazione primaria dell’uomo.
Tempi.it
Messico 1931. Il Vaticano e la “guerra giusta”
È lecito per un cristiano prendere le armi contro un governo che perseguita la Chiesa? A due anni dalla fine della guerra cristera in Messico, ne discutono in Segreteria di Stato i cardinali Pacelli, Gasparri e Boggiani
PAOLO VALVO*ROMA
Oggetto della riunione dei cardinali, che si svolge a pochi giorni di distanza dal IV centenario dell'apparizione della Virgen de Guadalupe, è la situazione della Chiesa messicana, che dopo decenni di persecuzione legale – ad opera del governo rivoluzionario laicista – e tre anni di guerra civile, ancora non trova pace. Gli accordi del 21 giugno 1929 tra il governo e l'episcopato (arreglos), raggiunti dopo una lunga e faticosa mediazione, se da una parte hanno posto fine alla guerra cristera che ha insanguinato il Paese dalla fine del 1926, dall'altra non hanno impedito nel 1931 la ripresa della persecuzione in numerosi Stati della federazione messicana.
A Veracruz, per esempio, il governatore Adalberto Tejeda impone la presenza di un solo sacerdote ogni 100.000 abitanti, forte dell'art. 130 della costituzione del 1917 che, tra le numerose disposizioni ostili alla Chiesa, affida ai governatori locali il compito di determinare il numero di sacerdoti legalmente autorizzati ad esercitare il proprio ministero, previa iscrizione in un apposito registro professionale. Proprio l'enforcement di questo articolo, disposto nel giugno del 1926 dal presidente Plutarco Elias Calles con un'apposita riforma del codice penale, aveva acceso la miccia che di lì a pochi mesi avrebbe fatto esplodere la rivolta armata di decine di migliaia di cattolici, chiamati dispregiativamente cristeros (dal motto «¡Viva Cristo Rey!» > cristosreyes > cristeros).
La Curia, allora, si era divisa tra chi come il segretario di Stato Gasparri cercava di unire la fermezza sui principi a un atteggiamento pragmatico nelle singole situazioni, e chi invece propendeva per una maggiore intransigenza nei confronti delle autorità civili: quest'ultima era la posizione, ad esempio, del cardinale Tommaso Pio Boggiani (Delegato apostolico in Messico dal 1912 al 1914). Una posizione che Pio XI avrebbe poi fatto propria, approvando nel luglio del 1926 la decisione dei vescovi messicani di sospendere il culto pubblico in tutto il Paese, in segno di protesta. Il protrarsi di questa sospensione per tutta la durata del conflitto cristero spinse d'altra parte la Santa Sede, in un secondo momento, ad accettare la mediazione offerta dall'ambasciatore statunitense in Messico Dwight Whitney Morrow (già socio del gruppo J.P. Morgan & Co.), il quale era convinto che solo la pacificazione religiosa avrebbe garantito al Messico la stabilità politica necessaria per assolvere i propri obblighi finanziari verso gli Stati Uniti.
Gli arreglos lasciarono tuttavia una ferita profonda nel cattolicesimo messicano, perché al tavolo dei negoziati, condotti dall'arcivescovo di Morelia Leopoldo Ruiz y Flores e dall'intraprendente vescovo di Tabasco Pascual Díaz y Barreto, i cristeros non furono in alcun modo rappresentati.
La ripresa del culto decisa dai vescovi il 21 giugno 1929 toglieva alla lotta armata dei cattolici un fattore di legittimazione decisivo, tale da spingere le milizie cristere ad autosciogliersi nel giro di un mese. Alle numerose prove di eroismo offerte in quasi tre anni di guerriglia, si aggiungeva così quella di deporre le armi contro la propria volontà, in spirito di obbedienza verso i vescovi e la Santa Sede. Un sacrificio a cui sarebbe seguito quello di centinaia dicristeros (in prevalenza capi), assassinati nei numerosi regolamenti di conti successivi agli arreglos, avvenuti nell'indifferenza del governo, che nel giugno del 1929 si era impegnato a garantire un salvacondotto a tutti i miliziani che avessero consegnato le armi.
Non può stupire, dunque, che ampi settori della Chiesa messicana si sentissero in qualche modo traditi dalla gerarchia, colpevole di quella che appariva a tutti gli effetti una resa verso uno Stato che Pio XI, nel febbraio del 1932, non esitò a definire «totalmente infeudato alla Massoneria». Con il modus vivendi del 1929, infatti, la Santa Sede non aveva ottenuto la riforma di quelle leggi anticlericali che, se applicate alla lettera, potevano letteralmente far sparire la Chiesa dal Paese, come sembrava dimostrare la ripresa della persecuzione nell'estate del 1931. Ruiz y Flores e Díaz – che in seguito agli arreglos erano divenuti rispettivamente Delegato apostolico e Arcivescovo di Città del Messico – furono così accusati dagli ambienti cattolici più radicali di aver ingannato la Santa Sede.
Un riflesso di queste lacerazioni si può cogliere nella riunione dei cardinali del 20 dicembre 1931, dove ancora una volta si fronteggiano Boggiani e Gasparri. Il primo, lodando la fermezza dimostrata dal vescovo di Veracruz Rafael Guizar y Valencia (canonizzato nel 2006), stigmatizza per altro verso «la debolezza di chi tiene le redini delle questioni ecclesiastiche» in Messico, ed evidenzia che non è facile privare i fedeli «del diritto naturale che hanno di difendere la fede». Sono in molti, infatti, a chiedersi se una ripresa della ribellione armata non sia l'unica strada percorribile, dato che – continua Boggiani – «il modus vivendi del 1929 è stato ridotto a un modus moriendi», che «dà occasione al Governo di andare avanti nel suo programma di scristianizzazione».
La risposta di Gasparri è categorica: nel cercare un rimedio a questa situazione «non si pensi neppure alla rivoluzione armata, non solamente perché la rivoluzione armata non avrebbe alcuna probabilità di riuscita e quindi sarebbe un vero disastro per la Chiesa ma anche e molto più perché la rivoluzione armata, fatta dai cattolici, come tali, e capitanata dal clero e dai Vescovi, sarebbe uno scandalo nella storia della Chiesa, la missione dell'episcopato e del clero non è di procurare armi e munizioni per promuovere la guerra civile, sia pure a scopo religioso, ma di educare il popolo nello spirito cristiano; e così ha fatto sempre la Chiesa anche nelle grandi persecuzioni dei primi secoli». Il nuovo segretario di Stato Eugenio Pacelli chiude la discussione facendo interamente sua la posizione suggeritagli poche ore prima dallo stesso Pio XI:
«la Santa Sede non può che benedire e incoraggiare tutti quelli che difendono i diritti di Dio e della Religione; però nelle condizioni attuali non può né autorizzare né incoraggiare la resistenza armata. Nelle condizioni attuali: perché, se vediamo la storia, i Pontefici hanno più volte non solo autorizzato, ma anche promosso le crociate esterne ed anche interne, come le guerre contro i Turchi, gli eretici. È vero che si difendeva anche la civiltà; ma Pio V, che ha vinto la battaglia di Lepanto, è quello che ha fatto per la guerra contro i Turchi quello che ha fatto Pio IV per il Concilio di Trento. Ma nelle condizioni attuali non può la Santa Sede né autorizzare né incoraggiare, non vogliamo dire disapprovare. Del resto unione, tutta l'unione possibile, nella varietà delle condizioni, e coltivare molto bene l'Azione Cattolica e usufruire bene l'Azione Cattolica, la quale invece di armare di spada e di moschetto, arma delle armi dell'apostolato».
L'Azione Cattolica come strada maestra per la presenza dei cattolici messicani nella società è l'oggetto principale delle istruzioni che furono impartite al Delegato apostolico Ruiz y Flores all'inizio del 1932, e che riprendevano buona parte dei contenuti del “voto” di Gasparri. Circa le polemiche sugli arreglos, le direttive della Santa Sede non lasciavano spazio a equivoci: «ogni discussione dovrà essere evitata, non solo perché è inutile riandare cose ormai passate, ma anche perché si verrebbero a confondere le idee sui vari motivi e sui mezzi con cui si deve lottare contro le leggi inique». Con questo, ai cattolici messicani si chiedeva l'ennesimo sacrificio. Forse il più gravoso di tutti.
* Scuola Superiore di Studi Storici – Università degli Studi della Repubblica di San Marino
MESSICO: I CRISTEROS ED IL PAPA PIO XI
Esasperato da un potere anticristiano insopportabile, il popolo messicano insorge per liberare la propria patria. Un sacrificio che non trova il consenso di molti vescovi e finisce tragicamente. Le encicliche di Pio XI che accompagnano il calvario del Messico nel secolo scorso.
di Alberto Leoni, da Il Timone (05/2009):
Se l’obiettivo è quello di comprendere, possiamo almeno tentare, nei limiti del possibile, di “fare storia”: tentare, cioè, di ricreare il momento culturale e politico del tempo in cui altre persone, non diverse da noi, più o meno dotate di coraggio e intelligenza, dovettero compiere scelte decisive e difficili. E questo non per tout comprendre et tout pardonner, non per essere indulgenti ad ogni costo ma per chiederci cosa avremmo fatto alloro posto, in modo da capire e prevedere come a potremmo essere giudicati noi, a nostra volo; ta, fra settant’anni.
Il pontificato di Pio XII (1939-1958) è fortemente legato a quello del suo predecessore, di cui fu il segretario di Stato e il collaboratore più stretto e capace. Di conseguenza, per comprendere le scelte di Pio XII è inevitabile guardare all’opera di Pio XI (1922-1939), e alla sua lunga battaglia contro le ideologie del tempo. Solitamente si dà risalto al conflitto contro fascismo, nazionalsocialismo e comunismo, al prezzo, però, di dimenticare la lotta di papa Ratti contro nazionalismo, laicismo e massoneria. La visione eurocentrica degli storici e dei pubblicisti finisce per restringere il campo d’indagine e a non valutare nella sua importanza l’evento che diede più dolore a Pio XI e che lo vide impegnato per dieci anni, ossia la guerra dei “cristeros” in Messico. Non è un caso, infatti, che le encicliche su questo argomento siano ben tre ed esaminarne lo sviluppo può offrire più di una chiave interpretativa per gli avvenimenti degli anni ’40.
L’esperienza diplomatica del futuro papa Pio XI, Achille Ratti, ebbe un debutto infuocato come nunzio apostolico in Polonia nel 1918.
Coraggioso come sempre, Ratti non fuggì dalla Varsavia assediata dai bolscevichi ma vi rimase per vederne la disfatta nell’agosto del 1920, con il cosiddetto “miracolo della Vistola”, quando le truppe polacche fermarono alle porte della capitale l’Armata rossa, ben più numerosa del loro esercito. Eppure, per quanto gioisse di una vittoria così straordinaria e decisiva per le sorti dell’Occidente, Ratti non mancò di sottolineare come il nazionalismo polacco fosse dannoso e contagiasse anche il clero, distruggendo le possibilità di una pace duratura con la Germania. Un giusto patriottismo è sicuramente un bene morale da perseguire, ma non quando l’amore per la patria diventa “spirito di separazione”. «Un nazionalismo esagerato – dirà papa Ratti nel 1938 – non è cristiano, non è religioso e finisce col non essere neppure umano». E l’altro grave male morale è il laicismo, «la peste dell’età nostra”, come afferma nell’enciclica Quas primas (11 dicembre 1925). “Si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti: si negò alla Chiesa il diritto – che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo – di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso». In questa visione profetica dello scontro fra Chiesa e ideologie ha un valore fondamentale la festa di Cristo Re, istituita proprio con l’enciclica Quas primas.
La persecuzione
In Messico, la massoneria e il laicismo avevano sferrato un attacco alla Chiesa di straordinaria violenza quale di rado si è visto nella storia. Dopo la rivoluzione che aveva abbattuto la dittatura di Porfirio Diaz (1876-1911), nel 1917 era stata promulgata una nuova Costituzione che, in buona sostanza, legalizzava la persecuzione contro la Chiesa, impedendone la libertà. Vi erano stati poi atti clamorosi, come l’attentato dinamitardo del 1921 alla reliquia della vergine di Guadalupe, fallito in modo inspiegabile. Nel 1924 salì al potere Plutarco Elias Calles (1877-1945), così feroce da autonominarsi “nemico personale di Dio”. Il 12 febbraio 1925 Calles istituì una chiesa messicana che, tra le tante bestialità, sostituì il vino con l’acqua di mezquite per la Consacrazione. I cattolici protestarono civilmente e pacificamente mentre le violenze si estendevano e iniziavano a cadere i primi cattolici militanti. Il 2 luglio 1926 fu emanata una modifica della legge penale (Legge Calles) con cui si disponeva la consegna delle chiese a laici nominati dai sindaci. Il 25 luglio, l’episcopato rispose disponendo la sospensione del culto in tutte le chiese del Messico a partire dal 10 agosto. Ormai era la guerra e non soltanto di parole. Come reazione agli assassini di laici e religiosi scoppiarono ben 64 rivolte armate fra agosto e dicembre 1926 e Pio XI, che già aveva protestato con forza presso il governo messicano, diffuse l’enciclica Iniquis afflictisque il 18 novembre 1926. In essa il Papa paragonava i martiri messicani a quelli uccisi dalla Francia rivoluzionaria e lodava il loro eroismo indomito.
L’episcopato e la resistenza armata
Va notato come Pio XI non esprimesse parole di condanna o di approvazione per la resistenza armata. Da parte dei vescovi, invece, vi furono atteggiamenti contrastanti e, si badi, tutti basati sulla dottrina della Chiesa in materia di “guerra giusta”. Dei quattro requisiti previsti dalla Chiesa, era indubbio che sussistessero sia 1) la causa grave che 2) l’esaurimento di mezzi pacifici tesi a scongiurare lo scontro. Era assai dubbio, però, 3) un possibile esito positivo ed era quasi certo che 4) la lotta armata avrebbe portato più danni di quanti non intendeva evitarne.
In ogni caso, i vescovi appoggiarono la protesta, ma non la ribellione armata e furono pochi i sacerdoti che seguirono i Cristeros nella guerriglia. Il governo, dal canto suo, aveva pensato di poter avere la meglio con facilità sugli insorti ma, nel corso del 1927, apparve chiaro che il terrore scatenato dai federali non portava al controllo delle province ribelli. Nel 1928, grazie a una sempre migliore organizzazione, dovuta al comando del generale Enrique Gorostieta Y Velarde (1891-1929), le forze governative erano in crescenti difficoltà e, all’inizio del 1929, la stessa città di Guadalajara, una delle più importanti del paese, rischiava di cadere in mano ai Cristeros.
Le sofferenze inflitte alla popolazione dai governativi erano state, però, spaventose e i morti si contavano a centinaia di migliaia. Questa strategia del terrore, alla fine, pagò, e la Chiesa, per evitare ulteriori sofferenze, si dispose alla trattativa mentre i Cristeros erano vittoriosi in campo militare.
In effetti fu la stessa notizia della negoziazione in corso a demoralizzare gli insorti e Gorostieta protestò con veemenza contro l’episcopato: «Ogni volta – scrisse ai vescovi il 16 maggio 1929 – che la stampa ci dice che un vescovo fa da parlamentare coi “callisti”, sentiamo come uno schiaffo in piena faccia, tanto più doloroso in quanto viene da coloro nei quali speriamo di trovare conforto, una parola che dia respiro alla nostra lotta: una parola che, con rare eccezioni, non abbiamo mai ricevuto. Fino a quando (i vescovi) si sentiranno più vicini ai carnefici che alle vittime? Se i vescovi ritengono che la nostra Guardia Nazionale fosse l’unica strada che ci lasciava il despota dovranno consultarci… Se i vescovi ci disapprovano e non terranno conto di noi, se dimenticano i nostri morti… allora respingeremo tale atteggiamento come indegno e traditore».
Il 2 giugno 1929 il generale Gorostieta rimaneva ucciso in un agguato. Le trattative venivano concluse il 21 giugno 1929 e i monsignori delegati, Ruiz Flores e Pascual Diaz Barreto, furono isolati dal mondo esterno e raggirati, così che il governo messicano ottenne la riapertura delle chiese senza abrogare la legislazione antiecclesiastica. Men che meno si tenne conto dei Cristeros, per i quali non venne ottenuta la minima garanzia. Il generale Jesùs Degollado Guizar († 1957), che aveva preso il posto di Gorostieta, diffuse il seguente messaggio con cui veniva smobilitata la Guardia nazionale cristera: «La Guardia Nazionale scompare, non tanto perché vinta dai nostri nemici, quanto perché abbandonata, in realtà, da coloro che dovevano beneficiare, per primi, del frutto prezioso dei suoi sacrifici e della sua abnegazione. Ave Cristo! Per te andiamo verso l’umiliazione, l’esilio, forse a una morte gloriosa, vittime dei nostri nemici, con il nostro amore più fervente, ti salutiamo e ti acclamiamo ancora una volta, re della patria nostra. Viva Cristo Re! Viva Santa Maria de Guadalupe! Dio, Patria e Libertà!». Negli anni successivi centinaia di ufficiali Cristeros vennero sistematicamente assassinati.
La fine della guerra civile
A migliaia di chilometri di distanza il testo degli arreglos fu sottoposto all’attenzione del Papa quando ormai non era più possibile tornare indietro. Il cardinal Tommaso Boggiani, già nunzio in Messico, dal quale era stato espulso, disse di aver visto piangere il Pontefice di fronte a quella sconfitta così dolorosa: una sconfitta perché lasciava totalmente indifeso chi aveva lottato con tanta abnegazione e continuava a morire gridando “Viva Cristo Re!”. Il prezzo della libertà, o del suo fantasma, era stato altissimo: 250.000 morti, dei quali 30.000 erano federali e 15.000 Cristeros. Era una guerra che non si poteva continuare.
Da allora la politica dei Concordati con le diverse nazioni si accentuò, tanto che, nel pontificato di papa Ratti, ne furono stipulati ben ventinove con regimi di ogni… tendenza politica. Ma l’opposizione al totalitarismo, di qualunque segno o colore, divenne ancora più incrollabile, sempre mediata dalla diplomazia del cardinal Pacelli, al fine di non provocare altri martiri.
Così il 29 giugno 1931 il Papa diffondeva l’enciclica Non abbiamo bisogno contro i soprusi del governo fascista e il 29 settembre 1932 tornava a occuparsi del Messico con la Acerba animi. Era un’enciclica amara e commovente, in cui si sentiva tutta la delusione per i patti che erano stati violati dal governo ma nella quale, con carità pari all’energia si ammoniva chi «spinto più dall’ardore della difesa della propria fede che non dalla prudenza, necessaria soprattutto in momenti così delicati… avesse supposto nei Vescovi intendimenti contraddittori» affinché «si persuada ora che tale accusa è del tutto infondata»: e se l’attuazione di tali direttive dovesse riuscire di scandalo ad alcuni fedeli essi sarebbero stati ritenuti «disobbedienti ed ostinati».
Il 13 giugno del 1933 viene pubblicata l’enciclica Dilectissima nobis sull’oppressione della Chiesa in Spagna, ben tre anni prima dell’inizio della guerra civile. Ma è nel marzo del 1937 che la combattività di un Papa già molto malato arriva al culmine quando vengono scritte e diffuse ben tre encicliche, la Mit brennender sorge (14 marzo) in cui «con viva ansia e stupore.. si denuncia il nazionalsocialismo come intrinsecamente malvagio; la Divini Redemptoris (19 marzo) contro il comunismo ateo e infine, ancora una volta, il Messico con la Firmissimam Constantiam del 28 marzo 1937 dove si auspica una partecipazione del laicato per risolvere gli immensi problemi nazionali.
Ciò che stupisce, in questo Magistero, è la costanza incrollabile, tesa a salvare la Chiesa da pericoli quali mai aveva dovuto affrontare in tutta la sua storia. La prudenza di Pio XI, continuata dal suo successore, dovette arrivare al punto di non poter impedire il martirio di chi aveva difeso la Chiesa con coraggio insuperato.
Ed è questa prudenza che, spesso, non viene compresa dai fedeli che non hanno le responsabilità dei vescovi.
RICORDA
«Lo giuro solennemente per Cristo e per la Santissima Vergine di Guadalupe Regina del Messico, per la salvezza della mia anima: 1) mantenere assoluto segreto su tutto quello che può compromettere la santa causa che abbraccio; 2) difendere con le armi in mano la completa libertà religiosa del Messico. Se osserverò questo giuramento, che Dio mi premi, se mancherò, che Dio mi punisca» (Giuramento dei Cristeros).
BIBLIOGRAFIA
Le encicliche di Pio XI in Enchiridion delle encicliche, voI. 5, Pio XI 1922-1939, EDB, 1999, 3 ed.
Emma Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Einaudi, 2007.
Achille Ratti – Papa Pio XI nel 1500 anniversario della nascita, a cura di Franco Cajani, I Quaderni della Brianza, gennaio-aprile 2008.
Si ringrazia per l’aiuto l’ing. Agostino Gavazzi di Desio, presidente del Comitato esecutivo de “I Quaderni della Brianza”.
Dossier L’insurrezione dei Cristeros messicani (1926-1929) in Nova Historica, n.25/2008.
Paolo Gulisano, Viva Cristo Re! Cristeros: il martirio del Messico 1926-1929, Il Cerchio, 1999.
Associazione Culturale “Identità Europea” [a cura di], “Viva Cristo Re!”. Il Martirio del Messico, Mostra presentata al Meeting per l’amicizia fra i popoli (Rimini 1999), Itaca, 199
https://vangelodelgiorno.blogspot.com/2014/11/cristiada-il-film-e-gli-approfondimenti.html