CONCEZIONE CREAZIONISTICA
La concezione creazionistica, cioè quella posizione che non assolutizza il mondo, ma lo concepisce come relativo, vale a dire come qualcosa che rimanda sempre «oltre», ad un Assoluto che è completamente «fuori» del mondo, che lo trascende e che perciò è a partire da esso inafferrabile, incomprensibile, misterioso, ma che, allo stesso tempo, lo «pone», lo «chiama» ad essere, lo crea e quindi è in esso presente (immanente) con il suo amore creativo, una tale concezione risponde meglio delle altre all'esigenza di salvaguardare:
1. il movimento e quindi la verità dell'esperienza sensibile e perciò il valore della sensibilità e dell'uomo sensibile;
2. il principio d'identità e quindi la ragione e perciò il valore della razionalità e dell'uomo razionale;
3. la fondamentale bontà della realtà mondana e quindi il valore della vita terrena che rende possibile un sano ottimismo;
4. la individualità personale dell'uomo e la sua inalienabile dignità come singolo;
5. ed infine la vera mondanità del mondo e umanità dell'uomo, le quali sono il necessario presupposto della eliminazione di ogni falsa sacralizzazione e quindi idolatrizzazione dell'intramondano, le quali a loro volta sono la condizione necessaria per un approccio non prevenuto al mondo che è «soltanto» creatura e conseguentemente allo sviluppo delle scienze e della tecnica.
Solo se confido nella mia sensibilità e nella mia razionalità che mi presentano il mondo e me stesso come da una parte ontologicamente consistente, e cioè reale e non illusorio, ma dall'altra anche precario, fuggevole e quindi contingente, posso evitare sia la riduzione illusionistica, sia l'assolutizzazione razionalistica della realtà e posso concepire il mondo e me stesso come creato, cioè come pensato-voluto-amato da un altro che chiamo Dio. Solo se sono in armonia con la condizione ontologica del mio essere (e del suo mondo), solo se mi comprendo come contingente, posso arrivare con sicurezza all'affermazione della esistenza di Dio trascendente. Infatti, se io e il mondo in cui vivo, siamo creati, è certo che esiste un Creatore. Se invece rifiuto questa mia condizione, non arriverò mai a riconoscere l'esistenza del Creatore. Il riconoscimento della mia condizione «naturale» (cioè essere contingente e quindi creato) e il riconoscimento della esistenza di Dio-Creatore sono interdipendenti. Perciò molto giustamente scrive Joseph Comblin: «L'uomo che vive armoniosamente la sua esistenza di uomo, che accetta la condizione umana e le sue leggi, non può non scoprire Dio e porsi dinanzi a lui e in lui. Altrimenti come potremmo parlare di conoscenza naturale? Se Dio si manifesta all'uomo in modo naturale, questo non può avvenire per mezzo di una trasmissione di conoscenze esoteriche. Deve avvenire attraverso il gioco spontaneo dell'esistenza umana, quando il gioco sia corretto. Dio non ha bisogno di esperienze particolari aggiunte alla condizione umana per manifestarsi alla universalità degli uomini. Si deve trattare di una conoscenza semplice, spontanea, facilmente accessibile a tutti gli individui, qualunque siano le esperienze individuali della loro esistenza singolare. L'uomo deve poter riconoscere Dio nelle situazioni normali della vita. Non che occorra postulare necessariamente una straordinaria esplicitazione della coscienza (...). Infatti per far conoscere Dio, la sua esistenza e la sua natura a una persona, non si tratta tanto di darle concetti, proposizioni e ragionamenti, non si tratta di darle segni evidenti della sua presenza, ma di mettere questa persona in una situazione tale che da sé e spontaneamente, irresistibilmente essa arrivi a cercarlo, a scoprire e a interpretare i suoi segni, a raggiungere la sua evidenza. Nessuno dimostra Dio a un altro. E' un passo che ognuno deve fare per conto suo » (Teologia della città, p. 473). Questo, crediamo, è il senso dell'affermazione della possibilità della conoscenza naturale di Dio fatta dal Concilio Vaticano I, il quale dice: «Eadem sancta mater Ecclesia tenet et docet, Deum, rerum omnium principium et finem, naturali humanae rationis lumine e rebus creatis certo cognosci posse... » (DB 1785).
Lo confermano due testi della Sacra Scrittura, quello del libro della Sapienza dove sì dice: « Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere... Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore » (Sap 13, 1-5).
E quello di San Paolo che scrive: « In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile...» (Rom 1,18-23).
(Teologia Fondamentale, Carlo Skalicky, “ut unum sint” Roma, p.54-56)
IL DIVINO CHE è IN NOI
Fra cinquecento e seicento abbiamo il sorgere di un senso di concretezza e una attenzione spiccata alla individualità.
Mentre infatti nel trecento quei temi erano inseriti all’interno di una prospettiva fondamentalmente teologica, qui essi, pur senza affatto rinnegare uno spirito religioso, vengono slegati da quella prospettiva e sviluppati anzitutto in riferimento all’uomo e al suo agire mondano.
Avviene così che al richiamo medievale alla trascendenza, espresso plasticamente nella sua forma più estrema dal gotico, si sostituisce una religiosità che guarda piuttosto al divino che è nel mondo e nell’uomo.” (Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone, Profilo di Storia della Filosofia, Filosofia Moderna, vol.2, ed SEI - Torino, p. 6-7)
CAMPANELLA TOMMASO
Nato il 5-IX-1568 da un ciabattino analfabeta, in una terra desolata dal malgoverno spagnolo, dalle calamità naturali e dalle scorrerie turche, C. non poté mai liberarsi totalmente dai limiti della superstizione e dell'autodidattismo; ansioso di spaziare con l'indagine per tutti i libri e soprattutto nel grande libro vivo del creato (Dizionario enciclopedico, UTET, III).
Campanella, si consacrò nell'ordine domenicano dove poté compiere gli studi, ma nel 1599 fu arrestato perché accusato di eresia e di cospirazione contro il governo spagnolo di Napoli. Trascorse 27 anni nella prigione napoletana dove scrisse La città del Sole, la descrizione di una società ideale sul modello della Repubblica di Platone, un’isola felice, un mondo fattibile e giusto, ma rigidamente disciplinato e gerarchicamente diretto: “... è la città distinta in sette gironi e s’entra dall’una all’altro per quattro strade e per quattro porte alli quattro angoli del mondo spettante, è un principe sacerdote tra loro che s’appella sole e in lingua nostra si dice metafisico, questo è capo di tutti, in spirituale e temporale e tutti li negozzi in lui si terminano”. Uscì di prigione nel 1626, ma, nuovamente perseguitato, fu costretto a cercare rifugio in Francia. Le sue opere, 82 in tutto, si occupano di molti e diversi temi filosofici; fra i suoi trattati vanno segnalate la Theologia e la Metaphysica. Fatalmente finisce più volte per cadere sotto i rigori dell'Inquisizione: infrazioni disciplinari, intemperanze verbali, opinioni eterodosse dispute incaute forniscono al Sant'Uffizio materia per un duplice processo che si concluderà in Roma nel dicembre 1597 con l'ordine drastico di far ritorno alla nativa Calabria. Costretto questa volta a obbedire, C. trova in patria un ambiente di sordo malcontento sociale, inasprito da contese giurisdizionali, da calamità naturali, da incursioni turchesche, lievitato da oscuri presagi di sconvolgimenti cosmici imminenti. In quel cupo ambiente egli getta il seme della ribellione con la propria trascinante facondia e delinea il programma di una futura repubblica comunistica e naturalistica destinata a restaurare il secolo d'oro dopo che gli Spagnoli, i Feudatari, il clero saranno stati spazzati via. La congiura viene subitamente repressa. Subirà un lungo, snervante processo, reiterate torture, sofferenze inenarrabili sopportate con raro stoicismo. Appena libero, eccolo riprendere la battaglia, caldeggiare le imprese missionarie, difendere generosamente Galileo, polemizzare contro gli atei, discutere la predestinazione, prender parte attiva in favore della Francia nella battaglia pubblicistica scatenata contro la Spagna, sempre rinnovando un invitto entusiasmo giovanile. Si mise in salvo in Francia, povero come sempre, amareggiato da continue persecuzioni dei suoi nemici, fervido ancora nel combattere l'errore, nel convertire gli eretici, nel caldeggiare i suoi grandi ideali politici, e là si spense cristianamente il 21-5-1639 lasciando incompiuta l'ultima sua impresa: l'edizione organica delle sue opere. Fra queste, oltre alle bellissime lettere, tengono oggi il primo posto le poesie, tardi tornate in luce (solo nel 1834 un filologo svizzero, Giovan Gaspare Orelli, le riesumava parzialmente), ma che presto hanno additato nel C. uno dei più alti vertici della lirica italiana; in forma rozza e tormentata, talora avvolte in oscuri concetti filosofici, in laconismi potenti, in immediatezze dialettali. Le poesie del C. si innalzano subitamente in un clima rarefatto di colloqui dell'anima con sé stessa e con Dio; nei più duri anni del carcere, quando la sofferenza fisica sembrava sul punto, di stroncare le ultime speranze del recluso e la sua stessa fortissima fibra, gli accenti di lamentazione, di ribellione, di accorato abbandono al divino volere toccano una purezza e una profondità di timbro che ha raro riscontro nella storia della poesia. Sul piano sociale, C., condannò apertamente l'egoismo, il particolarismo, l'ozio parassitario, le inumane condizioni di vita dei diseredati e sognò di risolvere i mali sociali con un progetto di repubblica ideale: La città del sole scritta nel 1602 e pubblicata nel 1623, retta secondo un rigoroso comunismo monastico, governata da sapienti, spartana nei costumi; l’astrattismo delle concezioni si rivela nell'estensione del comunismo anche alla vita familiare, ma il libretto serba un suo intramontabile fascino per il calore di interessi sociali, l'esaltazione della fratellanza umana, del coraggio, delle virtù morali, del sano esercizio fisico, per i precorrimenti del progresso scientifico, per le geniali idee pedagogiche, anticipatrici del Comenio, del Froebel e delle più moderne esperienze. C. riassume in sé le istanze rinnovatrici tentando l'erezione di un totale edificio dottrinale ispirato al più genuino umanesimo cristiano (Dizionario enciclopedico, UTET, III).
PROFILO di storia DELLA FILOSOFIA, Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone. ed SEI p.46-48 (testo liberamente sintetizzato) Nell'ambito della letteratura utopistica un posto a sé spetta alla Città del sole, l’anima l'attesa di una profonda trasformazione «e sarà grande monarchia nova e di leggi riforma e di arti, e profeti, rinnovazione». Un tema caro al Campanella e che ritorna costantemente in tutti i suoi scritti, così come nei diversi progetti che egli elaborerà. Nella Città del sole confluiscono motivi religiosi e politici. Questa città, di cui narra un navigatore genovese, ambientata nell'isola di Taprobana (l'odierna Ceylon), è organizzata secondo un ordinamento politico gerarchico al cui sommo sta un principe sacerdote, il Sole, o Metafisico, attorno a cui stanno tre magistrati, Pon, Sin e Mor, il corrispettivo politico delle tre primalità filosofiche di Campanella. Poche sono le leggi, ma la vita sociale è ugualmente rigidamente determinata secondo regole precise, attente soprattutto alla procreazione e all'educazione. Nell'isola i Solari vivono secondo un assoluto comunismo, dei beni, delle donne, dei figli, delle abitazioni. Tutti lavorano e perciò nessuno ha bisogno di lavorare più di quattro ore al giorno. I solari infine professano una religione naturale in tutto simile al cristianesimo, eccezion fatta per i sacramenti, che essi non conoscono. Come si vede la struttura gerarchica trae il proprio fondamento da motivazioni filosofiche e religiose. Ciò è visibile particolarmente nella figura del Metafisico, il quale è al tempo stesso capo politico e sacerdote. L'una e l'altra funzione peraltro gli vengono dalla sua sapienza che, come il nome indica, è metafisica. La convinzione di Campanella è quella di una profonda unità tra politica, religione e filosofia, che sola può condurre alla vera sapienza e garantisce contro la tirannide: «non sarà mai né crudele, né scellerato, né tiranno uno che tanto sa».
Il PROBLEMA POLITICO TRA REALISMO E UTOPIA
La sua utopia dell'ordine a svantaggio della libertà, contiene aspetti inquietanti. La riflessione di Campanella appare ancora tutta inscritta nelle tematiche del naturalismo rinascimentale nell'ingenua convinzione che il sapere da solo sia garanzia di retto governo, questo è l’atteggiamento di larga parte del razionalismo rinascimentale, troppo convinto del potere taumaturgico della razionalità umana. La convinzione di essere investito di una missione, che lo porterà a cercare sempre nuovi contatti per dare pratica attuazione alle sue idee di riforma universale, l'inquietudine esistenziale, l'incomprensione ed il fallimento segnano questa vita sofferta e tormentata. Egli fu filosofo e letterato ed i suoi sonetti sono tra i momenti più alti della poesia italiana del seicento. Peculiarità di Campanella fu quella di innestare sugli elementi naturalistici un'ulteriore riflessione teologica facendo rivivere nella sua Teologia il concetto platonico di partecipazione (sottolineare l'intima presenza di Dio a tutti gli esseri e il riassumersi in lui di ogni perfezione). Egli tuttavia accentua notevolmente la fondazione teologica dell'ordine naturale del cosmo, sottolineando che se è vero che la natura ha in sé quanto le è necessario per agire, essa è pur sempre tale perché così è stata creata da Dio. Questo gli permette di intendere la natura come un complesso di realtà viventi, ciascuna senziente, animata e tendente al proprio fine, e tutte d'altra parte unificate ed armoniosamente dirette a un fine universale da una comune anima del mondo.
Le tre "primalità» dell'essere
Della tradizione tomista accetta la fondamentalità della nozione di essere per definire sia Dio sia le creature partecipi dell'essere divino. Ispirandosi poi con Agostino, egli intende l'essere come intimamente strutturato secondo le tre «primalità» divine di potenza, sapienza, amore partecipate da Dio con l'essere ad ogni creatura. Le tre primalità sono dedotte dall'intreccio reciproco che esse manifestano in ogni ente. «Ogni ente, potendo essere, ha la potenza di essere. Ciò che può essere, sa di essere; se non avvertisse di essere, non amerebbe se stesso e non sfuggirebbe il nemico che lo distrugge, e non seguirebbe l'ente che lo conserva, come fanno tutti gli enti. Il sapere emana dal potere... Gli enti amano quel che sanno... L'amore profluisce dalla sapienza e dalla potenza” (Teologia 1,3,12).
L'autocoscienza
Su tale base metafisica, si costruisce la gnoseologia campanelliana, che vede il conoscere come intimamente legato all'essere stesso delle cose, e fa dell'autocoscienza (o autotrasparenza dell'essere a se stesso) una caratteristica fondamentale di ogni essere. «Noi affermiamo che la sapienza appartiene allo stesso essere delle cose, e che una cosa viene sentita e conosciuta perché è la stessa natura conoscente... Il conoscere è essere; dunque qualunque ente, se è molte cose, conosce molte cose; se è poche, conosce poche" (Metafisica II, 59). Questa struttura metafisica del conoscere si presenta in maniera aurorale negli esseri interiori e si realizza in pienezza nell'anima dell'uomo. Campanella parla di una originaria ed innata conoscenza di sé che l'anima possiede e che viene disturbata dal sopraggiungere di conoscenze esterne. Nel recupero dell'autocoscienza originaria sta per Campanella la fondamentale giustificazione riflessa del nostro sapere, con cui si sconfigge ogni possibile dubbio scettico e si pongono le salde basi della metafisica. Con il tipico procedimento agostiniano, che sarà ripreso da Cartesio, egli osserva infatti che anche colui che afferma di non sapere nulla, ha originaria coscienza di sé come di colui che non sa, e quindi conosce il proprio essere, e sa cosa sia il sapere e la verità. Certo è possibile non conoscere molte cose, e quindi anche dire di non conoscerle; ma l'anima ha di proprio che sa di non sapere o quindi conosce originariamente se stessa proprio mentre avverte di non conoscere le cose diverse da sé. Su queste basi, non è difficile a Campanella fondare una metafisica dell'assoluto e una originale visione religiosa dell'uomo. Conoscendo e amando sé come ente, l'anima conosce e ama l'essere di cui è partecipazione, e quindi conosce e ama Dio. Di Dio l'anima ha quindi una conoscenza originaria, che costantemente accompagna la conoscenza innata che essa ha di se stessa. L'uomo quindi, oltre che animale ragionevole e libero, è anche animale «religioso». La religione è una caratteristica naturale dell'uomo che, in quanto conosce e ama sé, già conosce e ama Dio. La vita spirituale, con cui l'uomo ritorna alla originaria autocoscienza di sé (dalla dispersione nelle realtà esteriori) , è anche essenziale ritorno a Dio, una «reminiscenza» di Dio, presente fin dall'origine con le sue tre primalità nell'anima dell'uomo. Contro i tentativi contemporanei di ridurre la religione a puro fatto storico o strumento politico (si ricordi la posizione di Machiavelli), Campanella sostiene quindi energicamente la connaturalità per l'uomo dell'atteggiamento religioso.
Genesi di un’utopia
(Sentieri della Filosofia, La “Città del Sole” e il pensiero utopistico fra cinquecento e seicento a cura di Giuseppe Scalizi, ed. Paravia). Campanella insiste nel concepire il corpo sociale e le varie costruzioni politiche come entità in se inerti, se non inserite nell’alveo di un contesto generale di ordine religioso e spirituale rappresentato dal papato. Chi si prende cura, come fece Machiavelli, soltanto di aspetti legati alla potenza terrena degli Stati finisce per limitarsi alla parte perdendo di vista la totalità. Come bene affermò Luigi Firpo: “Malgrado il naturalismo e il razionalismo, Campanella è un intimo assertore degli ideali della controriforma per la sua avversione profonda all’agnosticismo incredulo del Rinascimento e dell’individualismo anarchico della Protesta: il suo universalismo organico e gerarchico e di inconfondibile stampo cattolico”(L. Firpo, Lo Stato ideale della Controriforma, Laterza, Bari 1957, p.324). La totalità organica su cui si sofferma Campanella, è dominata da un’eterna Legge, la Legge di natura, la cui massima rappresentazione è il Cristianesimo rettamente inteso, un Cristianesimo mondato da ogni abuso. La religione viene ad essere non uno strumento per l’educazione di rozzi popoli, o uno strumento atto a rendere più sicuro e forte il potere di un principe, ma l’autentica anima dello Stato. Medioevale è il quadro tratteggiato dal Campanella: unità di tutte le genti sotto un potere centrale che vede la coscienza della potestas sacerdotale con quella politica (idem p.13). Il metafisico dei Solari, in questo senso, dovrebbe essere considerato un pontefice in grado di far convergere nelle proprie mani sia la potestà sacerdotale che quella temporale(Sentieri della Filosofia, La “Città del Sole” di Campanella, Giuseppe Scalici, ed. Paravia,p.25). Il Cosmo, nell’ottica campanelliana, non è inteso quale orizzonte ultimo dell’essere: la totalità di cui facciamo parte è infatti l’immagine di una dimensione divina: è il grande simulacro di Dio...(idem,p.16) Si riteneva all’epoca che esistesse un’ininterrotta tradizione di pensiero, religioso e filosofico, inaugurata da Ermete Trismegisto (il mitico Thot) in un imprecisato periodo dell’antichità egizia e fatta propria in epoche diverse da pensatori “ispirati” quali Orfeo, Mosè, Pitagora, Platone, Plotino, Giamblico, ecc... I punti salienti di tale tradizione possono essere così sintetizzati:
- assoluta perfezione del principio divino;
- cosmo inteso quale esplicazione, in forme visibili, della divinità;
- esistenza di un’Anima del mondo capace di vivificare, organizzare la materia, e di determinare il divenire degli enti, le loro trasforazioni, le loro interrazioni;
- “caduta” dell’uomo da una situazione originaria di perfezione;
- primato individuale dell’anima sulla materia del corpo;
- agire umano finalizzato al ritorno presso la sfera divina (idem, p,16-17). Lo riconosciamo in un giudizio complessivo sulla cultura del Quattrocento e Cinquecento, formulato in un recente saggio di E. Garin: "La crisi del sapere medievale aveva non solo cancellato barrière, ma distinzioni antiche. L'artista si era fatto scienziato, il filologo teologo, lo storico moralista, il fisico filosofo. Furono i "nuovi filosofi" inquieti e ribelli, una specie di cavalieri erranti del sapere, che si mossero fra sogni e magie, fra utopie e illusioni di paci universali e perpetue, fra riflessioni critiche capaci di ogni sondaggio interiore, fra vagabondaggi mistici in mezzo alle anime delle stelle e a formule matematiche capaci di tradurne i moti, finalmente non più circolari”(idem, p.18). I primi uomini, è scritto nel Senso délle cose, avevano una conoscenza diretta al Dio che da poco aveva creato il mondo e spesso si manifestava ed elargiva benefici. Spesso si indica la nécessita del ritorno al culto dell'unico vero Dio "naturalmente" sentito da tutte le genti. La religione non è mai, per Campanella, una sovrastruttura, uno strumento di dominio o l'esito di un'arte: è una realtà viva e presente; nell'armonia del cosmo, nell'uomo e — come istinto — in tutti glî altri enti. Religione è ciò che "lega" tutte le cose e le rivolge alla loro origine prima, non per esteriore imposizione ma intimamente. A questa religione innata, naturale e razionale insieme, a questo spontaneo tendere verso Dio» si sovrappongono le religioni positive, con i loro riti diversificati, dogmi e sacramenti. Ogni epoca ha manifestato diverse forme di religiosità, ma non sono mai esistite civiltà atee (Sentieri della Filosofia, La “Città del Sole” di Campanella, Giuseppe Scalici, ed. Paravia,p.19). .
VICO: LA VERITÀ NELLA STORIA
(Ciancio-Ferretti-Pastore-Perone, Profilo di Storia della Filosofia, Filosofia Moderna, vol.2, ed SEI - Torino, p.183-194)
Verità della mente umana e orizzonte metafisico
Vita e opere: La vita di Gian Battista Vico ci è stata in gran parte descritta da lui stesso nella sua autobiografia (1725-1728). Nato a Napoli nel 1678, si rivelò un genio precoce. Dopo gli studi giuridici, per la sua preparazione culturale furono determinanti i nove anni (1681-1693) trascorsi in qualità di precettore nel castello di Vatolla nel Cilento che possedeva una ricchissima biblioteca. Furono anni di intense letture e riflessioni che spaziavano dal campo della letteratura classica a quello del diritto e a quello della filosofia. Tornato a Napoli vi trovò un ambiente culturale assai interessato alle nuove correnti... Il suo pensiero si ispirò tuttavia costantemente al platonismo, mediato attraverso la tradizione rinascimentale e arricchito di altri importanti termini di riferimento quali Bacone, Galileo e il giusnaturalismo. Vico fu una mente largamente assimilatrice, ma non per questo eclettica. Anzi il suo pensiero, che recepisce insieme le esigenze di una nuova ragione inventiva e sperimentatrice e quelle della tradizione platonica e della tradizione religiosa, giunse a risultati così originali che il suo tempo non poté apprezzarli. In effetti Vico condusse una vita abbastanza oscura e non riuscì a ottenere che una cattedra di retorica malamente retribuita. Di tali ristrettezze risentono anche le sue opere. Basti pensate che il suo capolavoro, la Scienza Nuova, dovette essere scritta in forma più succinta perché non bastavano i fondi per la pubblicazione. Forse anche per questo motivo Vico ottenne scarsa comprensione presso i suoi contemporanei.
Il vero e il fatto
Nel De antiquissima Vico enuncia un principio fondamentale della sua filosofia: il Vero e il fatto si convertono reciprocamente, per cui «il criterio e la regola del vero consiste nell'averlo fatto». La verità di una cosa è nei principi e negli elementi che la producono. Di conseguenza non si può conoscere veramente la cosa senza possedere tali principi ed elementi: la scienza come «conoscenza»; solo chi è in grado di produrla li possiede.
La verità delle scienze
Tale principio vale anzitutto a limitare le pretese della ragione, senza però cadere nello scetticismo. A Cartesio Vico contesta la possibilità di fondare sul cogito una scienza assoluta. Il cogito infatti vale semplicemente ad accertare la mia esistenza, ma non è conoscenza della natura del mio essere: la coscienza di me non è scienza di me, giacché essa non produce il mio essere, ma semplicemente lo riconosce.
Riguardo al nostro essere come a quello della natura, solo Dio ne possiede la verità, in quanto ne è autore. L'uomo invece deve limitarsi a raccogliere gli elementi delle cose ricomponendole dall'esterno, senza riuscire a penetrarle dall'interno come fa la mente divina.
«La scienza umana sembra una sorta di anatomia delle opere della, natura. Così, per fare un esempio illustrativo, la scienza umana ha sezionato l'uomo in corpo e animo; e l'animo in intelletto e volontà; dal corpo ha poi tolto o come sul dirsi, astratto figura e moto, e da queste cose, come da tutte le altre, ha tratto fuori l'ente e l'uno» (De Antiquissima I, 2).
Movendo dagli elementi astratti la mente umana ricostruisce la realtà fornendone però una semplice immagine. Tuttavia movendo da questo limite che le è costitutivo, la scienza umana può attingere una sua verità in misura in cui essa costruisce, fa, cioè produce immagini, entità, connessioni, e producendole ne possiede i principi e le regole.
E quello che avviene nell'aritmetica e nella geometria, dove la mente partendo dall'uno e dal punto costruisce delle realtà che, essendo opera sua, conosce perfettamente. Le altre scienze invece garantiscono tanto meno il loro valore di verità quanto meno sono astratte e cioè quanto meno i loro oggetti si riducono a prodotti di operazioni mentali. Così la meccanica è meno sicura della matematica, la fisica meno della meccanica e la morale meno della fisica.
Il grado di verità proprio del sapere non dipende tuttavia dalla semplice corrispondenza al factum umano, ma anzitutto dall'essere l'operare umano un'immagine di quello divino. La mente deve riconoscere in sé la presenza di un'attività più alta: «La mente umana si manifesta pensando, ma è Dio che in me pensa, dunque in Dio io conosco la mia propria mente».
Il verum divino
Sulla base di questa apertura metafisica della mente non si può dunque dire che essa sia semplicemente creatrice, ma piuttosto che è tale nell'atto stesso in cui è imitatrice delle idee divine e partecipa della loro potenza. La necessità di ammettere una verità divina a fondamento di quella umana risulta dal fatto che l'uomo 1a presuppone e la applica sempre, anche quando sembra averla smarrita: «Dio mai si allontana dalla nustra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza dei beni; vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito»(De Antiquissima I, 6). La coscienza dell'errore e del finito implica la coscienza della verità e dell'infinito.
La Scienza Nuova
L'uomo artefice della storia
La sfera della realtà più propriamente umana e, come tale penetrabile dall'interno è il mondo della civiltà umana prodottosi storicamente. La scoperta di questo mondo rende possibile la più originale applicazione del principio del vero e del fatto, dando luogo a una scienza « nuova». Essa avrà la stessa certezza della matematica poiché studia una realtà i cui principi sono nell'uomo stesso, ma sarà superiore alla matematica per la sua concretezza, poiché non muoverà dall’astrazione, ma dai principi generatori della concreta fattualità storica. Infatti il presupposto fondamentale di tale scienza è che: «questo mondo civile, egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (Scienza Nuova, 3° ediz., I, 3).
Metafisica della mente umana
In questo senso la Scienza Nuova è anche una "metafisica della mente umana", e cioè una scienza dello spirito umano. Essa salda strettamente l'indagine sulla storia a quella sull’uomo, e ciò non solo nel senso che non si può conoscere la storia senza conoscere la mente umana che ne è autrice, ma anche nel senso inverso. Infatti se si considera l'uomo prescindendo dal suo sviluppo storico si rischia di isolarne, astrattamente, una sua dimensione o di assolutizzare uno stadio del suo sviluppo. Così la filosofia ha sempre corso il rischio di considerare l'uomo quale deve essere e non anche quale è (e questo sarebbe il limite di Platone), oppure ha sopravvalutato la ragione facendone una facoltà indipendente e assoluta (come è avvenuto in Cartesio). La concreta realtà dell'uomo è comprensibile soltanto conoscendo la legge del suo farsi, che si rivela solo in questo suo farsi e cioè nel suo divenire storico. Vico caratterizza il suo metodo di indagine, aderente alla storia, parlando di collaborazione tra filosofia e filologia(e per filologia Vico intende non solo la scienza delle lingue e delle letterature antiche ma anche della cultura in genere dei popoli antichi), la mancanza di questa collaborazione ha ingenerato l’errore in molti filologi e filosofi: «La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo... »
(Scienza Nuova, Degnità x).
Filosofia dell'autorità
La filologia porta l'autorità dei fatti, ma una filologia come mera raccolta di fatti è altrettanto erronea di un'analisi puramente razionale dell'uomo. Tra filosofia e filologia vi deve invece essere un rapporto di conferma reciproca, cosicché si possa accertare il vero e inverare il certo. La «scienza nuova» dovrà dunque procedere ricercando nei fatti storici le leggi che ne regolano il prodursi e che saranno convalidate dal loro rivelarsi conformi alla natura, della mente umana. Per scoprire queste leggi occorre individuare quali sono le costanti della storia: “Poiché questo mondo di nazioni è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni» (Scienza Nuova, I, 3). La validità di leggi attribuita a queste costanti storiche troverà poi conferma, secondo Vico, nel loro essere principi primi ed effettivi ed effettivi di spiegabilità del mondo storico.
Teologia della Provvidenza
Come si è detto, la Scienza Nuova, in quanto scienza della storia, è una metafisica della mente umana, e anche, per il suo attenersi ai fatti, una «filosofia dell'autorità». Ma in terzo luogo essa è detta una «teologia civile ragionata della Provvidenza divina». Infatti l'analisi della storia mostrerà che la semplice mente umana non è sufficiente principio di spiegazione della storia stessa, o meglio che la mente stessa, nel suo operare storico, è retta da un principio superiore.
L'opera della Provvidenza risulta dal fatto che i fini che la storia realizza vanno al di là delle intenzioni degli uomini e ciò sia nel senso che li attuano spontaneamente, sia nel senso che realizzano certi fini di giustizia e di progresso pur perseguendo intenti utilitaristici e individuali(Scienza Nuova, Conclusione). In questo modo, come mostreremo più chiaramente, la storia risulta essere una struttura molto complessa: infatti proprio movendo dal fatto che essa è intelligibile all'uomo, in quanto egli ne è l'autore si viene a riconoscere che l'uomo stesso, mentre fa e mentre guida la storia, è egli stesso guidato. Si coglie in ciò una tensione tra storia umana e storia divina, tra libertà e Provvidenza. È questo il motivo peculiare della visione vichiana della storia, quello a partire dal quale più se ne sono potute divaricare le interpretazioni.
I corsi storici
L'interpretazione della storia fornita da Vico muove soprattutto da un’analisi delle lingue antiche, poiché e da un’analisi del diritto delle nazioni in quanto esso esprime i principi dell'organizzazione civile, che costituisce il vero e proprio prodotto storico dell'umanità.
La legge delle tre età
La legge fondamentale della storia è quella del suo sviluppo in tre età... Religione, nozze e sepolture sono dunque i principi fondamentali della civiltà(Scienza Nuova, Idea dell'Opera). La religione è il primo principio perché è attraverso di essa che gli uomini vincono il loro arbitrio disordinato e stabiliscono degli ordinamenti civili fondati sulla volontà dègli dei. I matrimoni comportano la stabilità di vita e la trasmissione ordinata dei patrimoni e dei poteri. Le sepolture sonò legate alla fede nell'immortalità dell'anima, che innalza l’uomo al di sopra del bruto.
Le forme di governo
L'organizzazione civile dell'età degli dèi è la famiglia del gigante, che trae la sua legittimazione unicamente dalle rivelazioni divine fatte attraverso gli auspici. Su questa età Vico si diffonde poco giacché mancano i documenti.
La seconda età ebbe inizio quando presso gli uomini che si erano stabiliti e organizzati si raccolsero altri uomini che cercavano protezione e rifugio per sfuggire ai pericoli della vita selvaggia.
Nacquero così le prime città e le prime organizzazioni politiche caratterizzate dalla distinzione fra signori e servi.
I signori sono gli eroi che impongono il diritto con la forza, un diritto non comunicato a tutti e legato alle parole del signore. Quando i servi rivendicano ai signori i propri diritti, questi per meglio difendersi si uniscono in ordini nobiliari dando vita così agli stati aristocratici. In questa età sorgono anche le prime lingue articolate che hanno carattere mitico e poetico in quanto opera della fantasia. La conquista dei diritti civili da parte dei servi segna il passaggio alla terza età: ciò avviene attraverso le leggi agrarie e soprattutto con la concezione delle nozze solenni, che danno diritto alla trasmissione ereditaria. Nascono allora gli stati popolari fondati sul «diritto umano dettato dalla ragione umana tutta spiegata».
Questa forma di governo non è necessariamente democratica, ma può essere anche monarchica purché in essa viga «la ragione naturale, che eguaglia tutti». Conforme a questi caratteri è anche la lingua di questa età, fatta di voci convenzionali, di cui «sono signori assoluti i popoli».
La storia ideale eterna
La legge delle tre età costituisce la « storia ideale eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». Essa cioè è la norma di sviluppo di ogni civiltà, e la sua universalità è dimostrata, secondo Vico, dal fatto che i popoli l'hanno seguita senza che vi sia stata influenza dell'uno sull'altro. La storia ideale eterna come legge di sviluppo della storia è poi anche legge di sviluppo dell'uomo in generale. La storia cioè si è svolta secondo certi gradi e un certo ordine perché lo spirito umano può svilupparsi solo in quel modo: prima come senso, poi come fantasia, infine come ragione: « Gli uomini prima sentono senz’avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (Scienza Nuova, Degnità LIII). Nell'età della ragione l'uomo che passa dalla fanciullezza, in cui dominano il senso e la fantasia, all'età adulta, in cui domina il pensiero razionale, ripete in sintesi lo sviluppo storico dello spirito umano.
La sapienza poetica
La storia ideale eterna implica la presenza nella storia della Provvidenza. L'ordine e la norma della storia temporale si impongono infatti solo perché c'è una forza superiore e provvidenziale che dalla paura, dall'utilità, dalla violenza e dalle rivolte sa trarre un progresso civile. Ciò significa che nell'agire umano è presente una vis veri, un principio di verità divina, che nelle diverse età si fa presente all'uomo in modo diverso.
Il senso comune
Nelle prime due età il vero assume il carattere del certo e cioè di ciò che è stato divinamente rivelato o tramandato dagli antenati.
Non si tratta dunque di una verità razionalmente mostrata, ma piuttosto attestata dal senso comune, che è «un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano». Nel senso comune l'arbitrio umano ha una regola cui attenersi.
Il linguaggio: fantasia e poesia
Vico si diffonde in particolare sul sapere proprio della seconda età, la sapienza poetica, che in effetti costituisce una delle sue scoperte più originali. Innanzitutto tale sapienza è detta poetica perché il primo linguaggio, in cui essa si esprime, è fantastico e sublime e non ancora razionale; infatti «la fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio». Carattere della poesia è «alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de' fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fauciullo, per natura, furono sublimi poeti» (Scienza Nuova, Degnità XXXVII).
Per questo «tutte le storie barbare hanno favolosi principi» ed è nei miti che dobbiamo rintracciare la storia, la cultura e la sapienza dei popoli antichi.
I miti dunque non sono semplici favole e nemmeno un rivestimento poetico di una «sapienza riposta», ma una comprensione fantastica della verità.
Gli antichi, incapaci di esprimersi per concetti, usavano degli universali fantastici che sono modelli fantastici, ritratti ideali, universali in quanto possono rappresentare realtà particolari ad essi somiglianti; così, ad esempio, i greci non concepirono l'idea della prudenza, ma raffigurarono l'eroe Ulisse come modello fantastico di ogni uomo prudente.
Con l'analisi della sapienza poetica Vico raggiunge alcuni notevoli risultati.
In primo luogo stabilisce l'autonomia della poesia, nel senso che si tratta di una forma espressiva specifica indipendente dal linguaggio razionale.
I tropi del linguaggio poetico: allegoria, metafora, metonimia, sineddoche, ecc., «i quali si sono creduti finora ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche». La poesia cioè non è il risultato di un'operazione estetica sul linguaggio razionale, ma è una forma espressiva naturale e originaria.
In secondo luogo alla poesia non è assegnata una funzione puramente estetica, ma una funzione rivelativa: essa custodisce la verità sentita e immaginata quale l’appresero i primi uomini. In terzo luogo, e conseguentemente, è rifiutata l'origine convenzionale del linguaggio. Questa suppone infatti l'attribuzione al linguaggio della funzione meramente operativa di rendere possibile la comunicazione dei concetti, e inoltre non permette di spiegare lo stesso momento convenzionale del linguaggio (che pure esiste): le convenzioni, infatti, possono venire stabilite solo a partire da un precedente linguaggio (non convenzionale). Al contrario la natura metaforica e fantastica del linguaggio originario spiega la sua dimensione rivelativa, il fatto cioè che in esso sia presente una comprensione primitiva della verità, nel senso di una prima interpretazione in termini universali della realtà, attraverso gli universali fantastici.
La questione omerica
Sulla scorta di quest'analisi della sapienza poetica Vico giunse a risultati come quello della « riscoperta del vero Omero ». Poiché il linguaggio dei miti primitivi sono il patrimonio di tutto un popolo e poiché Omero si deve considerare come il primo autore della lingua greca, e i suoi poemi furono sentiti come patrimonio culturale comune di tutte le genti greche, Vico vede in essi non l'opera di un singolo poeta, ma l'espressione della sapienza poetica di tutto il popolo greco.
Verità e storia
La sapienza poetica, in quanto è sapienza su cui si reggono e progrediscono i popoli antichi, è soprattutto sapienza metafisica e giuridica.
Essa ha per contenuto i principi di giustizia e di ordine che devono guidare la vita civile, ma tale contenuto si manifesta in forme diverse a seconda che operi attraverso il senso o la fantasia o la ragione.
Ciò significa che da un lato la verità si produce storicamente ma dall'altro è essenzialmente sovratemporale, si che in ogni età può essere presente nella sua interezza.
Provvidenza e libertà umana
La verità della storia è dunque una verità metafisica nella storia. Nella storia si realizza la mediazione tra umano e divino: nel fare umano si rivela il vero divino, e d'altra parte il vero umano si attua attraverso il fare divino (della Provvidenza).
La verità si manifesta attraverso e nonostante l'arbitrio umano e può anche essere sviata dall'arbitrio stesso o da motivi contingenti.
La Provvidenza è la legge della storia, ma una legge trascendente. Che la storia sia spiegabile attraverso l’ordine provvidenziale non significa che essa sia necessitata, ma piuttosto che ogni sviluppo storico deve attenersi ad esso per non degenerare, ed anche che in esso la storia trova possibilità e garanzia di superare ogni fattore degenerativo.
La forza e l'opera della Provvidenza si manifestano nella sua capacità di servirsi degli strumenti umani, anche più rozzi e refrattari, per produrre un ordine di giustizia. E tuttavia tale ordine resta affidato alla libertà dell'uomo.
I ricorsi storici
Che il processo storico non abbia carattere di necessità risulta particolarmente evidente nella dottrina dei regressi e dei ricorsi. Viro individua nel compimento del progresso giunto all'età della ragione i germi di un possibile regresso: «Gli uomini prima sentono il necessario: dipoi badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze»(Scienza Nuova Degnità LXVI).
A questa decadenza dei costumi corrisponde una decadenza della cultura nello scetticismo e nella falsa eloquenza, mentre gli stati popolari finiscono nell'anarchia e poi nella tirannide. A ciò la Provvidenza offre tre rimedi; o un forte monarca che risollevi lo stato, o l'assoggettamento a una azione migliore e più forte o la regressione nella barbarie da cui inizia un nuovo corso storico, che ripete le tappe del corso precedente, per quanto a un livello superiore. In questo modo gli uomini, che avevano smarrito la verità nello Scetticismo e nella dissolutezza, poterono recuperare un rapporto immediato con essa attraverso il ritorno al senso e alla fantasia. La possibilità dei regressi e dei ricorsi storici dimostra che il progresso storico non è garantito sempre e che tuttavia la Provvidenza guida sempre la storia, ma anche qui attraverso possibilità diverse e non in modo univoco e necessitante.
Religione e filosofia
L'età della ragione in particolare sembra essere l'età critica della storia. Infatti mentre nei primi stadi della civiltà la Provvidenza si impone con la forza della certezza, nell'età della ragione il vero diventa oggetto di libera ricerca e compito da realizzare consapevolmente. Il piano provvidenziale può qui operare solo in quanto riconosciuto compiutamente dalla ragione "tutta spiegata". La filosofia succede allora alla religione, «così ordinando la provvidenza: che, non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intender le virtù nella lor idea»(Scienza Nuova, Conclusione). Ma poiché nella filosofia la custodia della verità è affidata al libero giudizio della ragione, maggiore è la possibilità della caduta nell'errore e nello scetticismo, per cui «si diedero gli stolti dotti a caloniare la verità».
Questa possibilità di smarrimento significa che la ragione non è una facoltà pienamente indipendente e creatrice di verità.
Innanzitutto essa non può essere svincolata dal senso e dalla fantasia, a rischio di diventare vuota. E in questa prospettiva il fine della storia non è il semplice esplicarsi della ragione, ma l'armonia di senso, fantasia e ragione. Inoltre essa è subordinata alla verità divina come alla sua norma.
Per questi motivi la ragione deve essere solidale con il senso comune e con la tradizione in cui si manifesta l'opera provvidenziale: «La provvidenza ci si fa apertamente sentire in quelli tre sensi: uno di meraviglia, l'altro di venerazione ch'hanno tutti i dotti finor avuto della sapienza inarrivabile degli antichi, e 'l terzo dell'ardente desiderio onde fervettero di riceverla e di conseguirla » (Scienza Nuova, Conclusione). È questo il motivo più profondo per cui devono convergere filosofia e filologia, vero e certo. La storia non si può semplicemente dedurre dalla sola mente umana con una pura costruzione razionale, perché la stessa mente umana si rivela a se stessa solo attraverso l'opera provvidenziale, a cui dunque deve fare riferimento per conoscere la propria verità.
Se allora si può dire che la filosofia succede alla religione, ciò non significa che la annulli, ma al contrario che ad essa spetta il compito di custodirla: «Da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio» (Scienza Nuova, Conclusione).