io sono il Re dei Re lorenzoJHWH Unius REI

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1) I MARTIRI CRISTIANI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE.

17 luglio 1794, a Parigi.


I dialoghi delle Carmelitane - Film completo: La tragica vicenda che durante la Rivoluzione Francese vide protagoniste e vittime le eroiche monache carmelitane del monastero di Compiègne, da allora note col nome di "Sante Martiri di Compiègne".

Film del 1959, tratto dall'opera di Bernanos, adattamento del romanzo "L'ultima al patibolo" di Gertrud Von Le Fort. 

Un capitolo troppo poco conosciuto della Rivoluzione francese: la tragica vicenda che durante la Rivoluzione Francese vide protagoniste e vittime le monache carmelitane del monastero di Compiègne. Le carmelitane di cui si parla furono tutte beatificate con il nome di "Sante Martiri di Compiègne". 

Avevano fatto "voto di martirio", offrendo le loro vite per ottenere che la Francia restasse cristiana e la fine del massacro. 

Furono beatificate il 27 maggio 1906 dal papa Pio X. 

La loro festa è stata fissata al 17 luglio, data di ricorrenza del loro martirio.

Il dramma “I dialoghi delle Carmelitane” è stato scritto da George Bernanos nel 1949 e messo in onda dalla Rai nel novembre 1956 nella versione diretta da Tatiana Pavlova. 

Gli interpreti dell’opera sono Emma Gramatica, Evy Maltagliati, Lea Padovani, Edda Albertini, Tino Carraro, Paolo Carlini, Piero Carnabuci - Regia: Tatiana Pavlova.


I dialoghi delle Carmelitane (Le dialogue des Carmélites) è una pièce teatrale di Georges Bernanos (basata sul racconto L’ultima al patibolo di Gertrud von Le Fort)


La storia narra la vicenda delle sedici Martiri di Compiègne, condannate a morte e giustiziate tramite ghigliottina il 17 luglio 1794, a Parigi.


Trama


Durante i difficili anni della Rivoluzione francese, la giovane nobildonna Bianca, su consiglio del padre, il marchese de la Force, decide di entrare nel convento di clausura delle Carmelitane di Compiègne. 

La necessità di trovare un rifugio sicuro si accompagna a una certa vocazione religiosa, ma, nonostante questo, Bianca ha paura di affrontare i sacrifici e la sofferenza e teme di non essere all’altezza della sua scelta.


Ben presto le autorità rivoluzionarie e il popolo cominceranno a infastidire le monache, accusate di essere delle reazionarie, nemiche della patria, che accaparrano ricchezze e danno ospitalità ai fuggiaschi. 

Costrette ad abbandonare il convento, le monache fanno voto di essere disposte a sacrificare la loro vita affinché la religione cattolica possa sopravvivere in Francia.


Disperse in piccoli gruppi, verranno quasi tutte arrestate, giudicate colpevoli e condannate a morte. 

Il corteo che le accompagna alla Piazza del Trono Rovesciato, dove avverrà l’esecuzione, attraverserà le strade di Parigi tra preghiere, benedizioni e canti religiosi. 

Bianca de la Force, con coraggio, salirà sul patibolo al posto di Madre Maria dell’Incarnazione, che sarà l’unica a salvarsi e che da sola dovrà continuare a praticare l’insegnamento del Carmelo.

https://www.youtube.com/watch?v=WRkxW68uDyk

https://www.youtube.com/watch?v=WYXfHWzYaqc

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2) I MARTIRI CRISTIANI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE.


Martiri della Rivoluzione Francese (Autore: Mons. Luigi Negri. Fonte: Il Timone n.17, Gennaio/Febbraio 2002) † Francia, fine XVIII secolo

http://www.santiebeati.it/dettaglio/94613


La persecuzione religiosa subita dai francesi cattolici durante la Rivoluzione francese non ha equivalenti nella storia se non le grandi persecuzioni del XX secolo. 

Di esse la Rivoluzione francese è stata il modello. 


La persecuzione religiosa non fu solo persecuzione contro i religiosi, ma una rivolta contro il cristianesimo, con il preciso intento di scristianizzare la nazione francese. 

La maggioranza dei preti venne assassinata od espulsa, tutte le chiese furono chiuse per un anno e mezzo ed il loro patrimonio requisito ed incamerato, duecentocinquantamila vandeani furono massacrati perché volevano andare alla Messa e restare fedeli alla Chiesa ed al Papa. 


Un martire è già stato dichiarato Santo, Fratel Salomone Laclerq dei Fratelli delle Scuole Cristiane, la cui canonizzazione è stata celebrata da Papa Francesco il 16 ottobre 2016. 

Ben 439 martiri sono già venerati come Beati, elevati agli onori degli altari in più riprese e da diversi Papi. 

Per altri 593 Servi di Dio sono in corsi i processi per il riconoscimento del martirio. 


Presso l’Arcidiocesi di Parigi, inoltre, è in fase di avvio la causa di beatificazione della principessa Elisabetta di Francia, nota come Madame Elisabeth, sorella del Re Luigi XVI. 

Per quest’ultimo, invece, non è mai stata avviata ufficialmente la causa, nonostante Papa Pio VI con l’Allocuzione Quare lacrymae (Roma, 17 giugno 1793) si fosse dichiarato propenso a considerare martirio la sua morte.



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3) I MARTIRI CRISTIANI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE.

I MARTIRI DELLA VANDEA: il motto era «Dieu Le Roi» («Dio [è] il Re»).

Nel 1793, durante la Rivoluzione francese, si scatenò, nella terra della Vandea, il primo genocidio di Stato della storia occidentale. 

Il regime rivoluzionario di Parigi venne imposto con la forza nelle province di Francia ed ebbe in Vandea, la più cattolica di esse, la reazione più coraggiosa e gloriosa. 

I Blanchs (i vandeani) si contrapposero ai Blues (i giacobini): uniti a Dio e al Re, i contadini della Vandea, con i loro amati sacerdoti e i loro generali, si distinsero per la strenua difesa contro la dea ragione ed il principio deista dell’essere supremo; perciò, a causa del loro fermissimo Credo e della loro fedeltà monarchica, vennero massacrati. 


Per odio ideologico perirono, in quell’ecatombe, più di 30 mila abitanti. 

Tuttavia di questo evento storico o si è parlato in termini negativi per esaltare i “benefici” della Rivoluzione e del Terrore sanguinario, oppure lo si è del tutto omesso dai libri di storia…


Ha scritto Aleksandr Isaevič Solženicyn:

«Già due terzi di secolo fa, da ragazzo, leggevo con ammirazione i libri che evocavano la sollevazione della Vandea, così coraggiosa e così disperata, ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che nei miei tardi giorni avrei avuto l’onore di partecipare all’inaugurazione di un monumento agli eroi e alle vittime di questa sollevazione. 

[…] gli avvenimenti storici non vengono mai compresi appieno nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a distanza, una volta che il tempo li abbia raffreddati.

Per molto tempo ci si è rifiutati di capire di accettare quel che gridavano coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una contea laboriosa, per i quali la rivoluzione sembrava essere fatta apposta, ma che la stessa rivoluzione oppresse e umiliò fino alle estreme conseguenze: e proprio contro essa si rivoltarono. 

[…]. È stato il ventesimo secolo ad appannare, agli occhi dell’umanità, quell’aureola romantica che circondava la rivoluzione del XVIII secolo 

[…] le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; 

quanto rovinino il corso naturale della vita; quanto annichiliscano i miglioramenti della popolazione, lasciando campo libero ai peggiori; come nessuna rivoluzione possa arricchire un Paese, ma solo qualche imbroglione senza scrupoli; come nel proprio Paese, in generale, essa sia causa di morti innumerevoli, di un esteso depauperamento e, nei casi più gravi, di un decadimento duraturo della popolazione» («Famiglia Cristiana», n. 41/1993, pp.80-81).


In Vandea si verificarono una serie di conflitti civili scoppiati al tempo della Rivoluzione francese, che videro la popolazione della Vandea e di altri dipartimenti vicini insorgere contro il governo rivoluzionario. 

La prima e la seconda guerra di Vandea vengono solitamente accorpate in un unico periodo che va dal 1793 al 1796. 

L'insurrezione ebbe inizio nel marzo 1793, quando la Convenzione Nazionale ordinò la leva obbligatoria per 300.000 uomini da inviare al fronte e proseguì per i successivi tre anni, con brevi tregue durante le feste come il Natale e la Pasqua. 

Il periodo più acuto degli scontri, in cui spesso gli insorti ebbero ragione delle truppe repubblicane, terminò con la vittoria di queste ultime nella battaglia di Savenay. 

La repressione compiuta tra l'estate del 1793 e la primavera del 1794, ad opera delle truppe repubblicane regolari e da reparti di volontari, fu assai feroce.

Tuttavia gruppi armati vandeani continuarono a combattere e una tregua vera e propria si ebbe solo nella primavera del 1795, con la pace di La Jaunaye. 

Questa prima guerra fu la più importante per numero di operazioni militari ed è quella a cui comunemente ci si riferisce trattando dell'insurrezione vandeana. 

Nondimeno lo stato insurrezionale rimase endemico nella regione e la rivolta si riaccese più volte negli anni seguenti, soprattutto nei momenti di crisi dei governi repubblicani e napoleonici. 

Il 24 giugno 1795 iniziò la seconda guerra di Vandea, che terminò l'anno successivo.

La terza guerra di Vandea durò solo tre mesi, dal 26 ottobre al 17 dicembre 1799, terminando con l'armistizio di Pouancé: a causa dell'instabile situazione politica, la Francia non avrebbe potuto sostenere una nuova guerra civile e per questo motivo il nuovo Governo francese preferì acconsentire alle richieste degli insorti, in modo da evitare il ritorno della monarchia, che in quel momento sembrava imminente.


La quarta guerra di Vandea iniziò nel marzo 1813, dopo la ritirata di Napoleone dalla Russia (1812) ed ebbe una pausa quando, a seguito della sconfitta dell'Imperatore a Lipsia (ottobre 1813), Luigi XVIII salì al trono, nell'aprile 1814. 

Dopo il ritorno al potere di Napoleone con i Cento Giorni, la guerra riprese il 15 maggio 1815 e terminò il mese successivo quando, a seguito della battaglia di Waterloo, Luigi XVIII ritornò sul trono di Francia nel giugno 1815. 

Il Sovrano, in segno di riconoscenza, conferì il grado di generale dei granatieri reali (un corpo militare addetto alla protezione del re) al generalissimo dell'armata vandeana Louis de La Rochejaquelein e lo stesso fece con il suo successore Charles Sapinaud, che divenne generale e fu insignito del titolo di Duca.


I vandeani iniziarono la rivolta solo dopo che il regime terroristico attuò misure repressive per il clero e aumentò le tasse per poter sostenere le spese militari. 

Il ripristino della monarchia rappresentava per i controrivoluzionari vandeani una soluzione per porre fine alla tragica rivoluzione.

I primi testi che trattarono del genocidio vandeano furono le memorie di alcuni dei protagonisti di quei tragici eventi: la marchesa La Rochejaquelein, Poirier de Beauvais, Joseph de Puisaye, la signora Sapinaud de La Rairie e per i repubblicani: Grouchy, Kléber, René-Pierre Choudieu, Turreau, Dumas. 

Il più celebre documento, del primo raggruppamento di testimoni, sono le Mémoires (1811) de Madame la marquise de la Rochejaquelein, vedova di Louis Marie de Lescure e in seguito di Louis de La Rochejaquelein, che essendo vedova di due tra i più importanti generali dell'Esercito cattolico e reale visse in prima persona tutte le guerre di Vandea, che descrive come una rivolta spontanea dei contadini per difendere il loro re e la loro Chiesa.


L'Esercito cattolico e reale era formato da quei francesi contrari alla rivoluzione e che invece sostenevano la monarchia, in particolare era composto da contadini della cosiddetta «Vandea Militare», composta dai dipartimenti di Vandea, Loira Atlantica, Maine-et-Loire e Deux-Sèvres. 

I capi furono scelti tra la nobiltà francese che non era emigrata in altri Stati, per paura della cattura e della ghigliottina, ma che rimase in Francia per cercare di ristabilire la monarchia.

L'Esercito nacque il 4 aprile 1793, in seguito alla riunione dei principali capi vandeani avvenuta a Chemillé, in seguito alla quale venne scelto come comandante in capo (che verrà chiamato «Generalissimo») Jacques Cathelineau. 

Da Parigi, intanto, la Convenzione, ordinò la «pulizia etnica» dei «briganti» vandeani.


I principali capi militari dell’Esercito cattolico e reale furono: Jacques Cathelineau, François-Athanase Charette de La Contrie, Charles Melchior Artus de Bonchamps, Maurice-Louis-Joseph Gigot d'Elbée, Louis Marie de Lescure, Henri du Vergier de La Rochejaquelein, Jean Nicolas Stofflet, Jacques Nicolas Fleuriot de La Fleuriais, Charles Sapinaud, Louis e Auguste du Vergier de La Rochejaquelein (entrambi fratelli di Henri de La Rochejaquelein), Charles d'Autichamps. 

Alcuni di questi valorosi e cattolici generali sono ricordati nella bellissima canzone di Jean Pax Méfret, Guerre de Vendée.

Il simbolo della controrivoluzione vandeana era un cuore sormontato da una croce rossa su campo bianco a simboleggiare i Sacri Cuori di Gesù e di Maria, ai quali i vandeani erano particolarmente devoti grazie alla predicazione di San Luigi Maria Grignion de Montfort; inoltre tale simbolo richiamava anche lo stemma della Vandea, anch’esso formato da due cuori rossi (quelli di Gesù e Maria) sormontati da una corona che termina con una croce e che rappresentare la regalità di Cristo. 

Il motto era «Dieu Le Roi» («Dio [è] il Re»).


L’odio per la profonda Fede religiosa dei vandeani fu la ragione principale della spaventosa repressione e delle stragi indiscriminate. 

Il Terrore si scatenò contro la Fede e contro contadini che volevano continuare a vivere del loro lavoro e dei loro valori.

Ancora oggi nelle case di Lucs-sur-Boulogne (sul fiume Boulogne), il villaggio dove la memoria è molto forte, è rimasto il simbolo della rivolta vandeana: la bandiera con il cuore e la croce. 

Le chiese della Vandea sono piuttosto recenti, perché i Blues, i soldati inviati dalla Convenzione di Parigi, ne bruciarono circa 800.

La chiesa più piccola di Le Lucs, chiamata «la Chapelle», sorge su un colle un po’ fuori dal paese ed è divenuta monumento storico. Qui, il 28 febbraio 1794, i soldati entrarono nella Chapelle (che sorgeva nello stesso luogo e identica a quella odierna) e spianarono i loro fucili contro più di cento uomini e soprattutto donne e bambini. 

Le vittime, che pregavano in ginocchio per prepararsi alla morte, vennero trucidati dai rivoluzionari. In tutto il villaggio di Le Lucs i morti furono 563, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni: oggi i loro nomi sono scolpiti sulle pareti a perenne memoria de «la haine de la foi» («l’odio verso la fede»). 

Vicino alla Chapelle sorge un museo-memoriale, che venne inaugurato da Solzenicyn il 25 settembre 1993.

In Vandea, su 800 parrocchie circa, i preti refractaires, che cioè rifiutarono di giurare all’Assemblea costituente di Parigi, furono 768 e tutti vennero sostituiti da parroci sermentées, cioè giurati (spesso neppure regolarmente ordinati), disprezzati dai contadini vandeani. 

La persecuzione quotidiana dei sacerdoti veri fu la prima e reale ragione dell’esasperazione vandeana. 

Esiste un documento del più feroce persecutore e sterminatore giacobino, il generale Louis Marie Tourreau, nel quale sottolinea la grande autorità, presso i vandeani, dei preti non giurati e ciò per tre ragioni: integrità dei costumi, serietà della formazione dottrinale, intima conoscenza del loro gregge.

La guerra civile in Francia su larga scala ebbe inizio proprio in Vandea con l’insurrezione di Bressuire. 

La repressione provocò 100 morti e molti rivoluzionari staccarono le orecchie delle loro vittime per farsene coccarde.

Molte furono le vittorie a vantaggio del popolo armato di forche e falci contro le equipaggiate truppe rivoluzionarie. Nantes, strappata «ai borghesi di Parigi», fu tenuta per mesi. 

Ma proprio Nantes fu spesso teatro degli annegamenti delle persone, essi ebbero inizio alla fine del 1793 e continuarono fino alla primavera del 1794. 

Responsabile fu soprattutto Jean-Bptiste Carrier, inviato dalla Convenzione di Parigi a praticare la «soluzione finale» del problema vandeano. 

Le prime tre cosiddette noyades furono rivolte esclusivamente ai preti refractaires (250 circa). Gli storici calcolano che gli annegati furono circa 8000. 

Quando Carrier tornò a Parigi, dopo gli eccidi, la Convenzione per togliersi la responsabilità dei massacri decise di tagliargli la testa sotto Madame Guillotine.


Il generale Tourreau, invece, mise a ferro e fuoco la regione vandeana da nord a sud e da est ad ovest: i villaggi venivano circondati, la gente radunata e trucidata, infine i soldati incendiavano case ed edifici. 

Chiaro l’obiettivo: l’olocausto del popolo vandeano era accompagnato alla distruzione di tutto. 

Scriveva la «Gazette Nationale» riportando la seduta del 17 febbraio 1794: (trascitta il 19, p. 503):

 «si tratta di spazzare con il cannone il suolo della Vandea e di purificarlo con il fuoco». 

Ha spiegato il grande storico del genocidio vandeano Reynald Secher: 

«Queste rappresaglie non corrispondono dunque agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini» (R. Secher, Il genocidio vandeano, Effedieffe Edizioni, Milano 1989, p. 306) per sterminare una «razza maledetta», termine ripreso da tutti i rivoluzionari, una razza ed una terra considerate irrecuperabili, perciò: «La guerra finirà solo quando non vi sarà più un abitante su questa terra disgraziata» (Archivio storico dell’esercito, B. 58. Lettera del 25 piovoso dell’anno II). 

I Giacobini gioivano, come risulta dai documenti dell’epoca, nel lasciare sul loro cammino soltanto cadaveri e rovine… perché occorreva «sacrificare tutto alla vendetta nazionale» 

(R. Secher, Il genocidio vandeano, p. 306). 

Insomma, la volontà di far sparire dalla faccia della terra ogni traccia di un popolo, qualsiasi popolo, contiene in sé la definizione di genocidio.


Per approfondire: Reynald Secher, Il genocidio vandeano, Effedieffe Edizioni, Milano 1989.

http://www.santiebeati.it/dettaglio/95458

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l'aspetto ideologico ateo e massonico della Rivoluzione Francese.

Un uomo che fa a meno di Dio, uno Stato che diventa totalitario, un odio sfrenato verso la religione cattolica e la monarchia, l’annientamento del passato e il culto della dea ragione: questi i capisaldi dell’evento preso a simbolo della nascita del mondo moderno.

La Rivoluzione francese è il primo radicale tentativo di costruire una società ed una struttura statale nell’orizzonte di quella cultura che si definisce "moderna". 

    Capisaldi di questa cultura sono: un uomo "senza Dio", assolutamente autonomo ed autosufficiente che non ha bisogno di nessun riferimento religioso per conoscere la sua identità, i principi fondamentali del suo comportamento, le regole fondamentali della vita sociale. 

Si definisce questo mondo culturale anche come laicismo. 

Padre Cornelio Fabro raccoglieva l’essenza del laicismo in questa formula:

 "Dio se c’è, non c’entra".

Il mondo moderno con la Rivoluzione francese ha dimostrato in modo gigantesco, negli sforzi e anche negli orrori, che era possibile creare una società e uno Stato secondo quella ragione illuministica, che è sostanzialmente una ragione scientifico-tecnologica. 

In particolare lo Stato costituisce l’obiettivo ultimo dello sforzo per razionalizzare la vita dell’uomo nella società. 

Lo Stato diviene dunque la realtà che raccoglie tutti i valori razionali, culturali ed etici: diviene dunque il vero fatto che dà valore totale alla persona ed alla società.

Si può anche dire che la Rivoluzione Francese sostituisce ad uno Stato che riconosce una dimensione religiosa della vita, uno Stato che si presenta come capace di totalizzare la società: uno stato "totalitario", appunto. 

È ovvio che quindi non si è trattato di una evoluzione di pezzi della società precedente, richiesta dall’apparire di nuove esigenze, di nuovi problemi, di nuove sfide. 

        La società precedente aveva vissuto momenti di riforma parziale che l’avevano, in qualche modo, adeguata progressivamente alla evoluzione di tempi e problemi.

        La Rivoluzione francese invece crea un mondo nuovo: in tanto il mondo nuovo si può costruire se si distrugge il mondo del passato. 

Il mondo del passato (l’Ancìen Regime) è considerato dai rivoluzionari francesi come l’insieme di tutti gli errori teorici e politici, di tutte le ingiustizie personali e sociali, di quella profonda alienazione da cui appunto ‘uomo doveva essere liberato per l’esercizio di quello che gli illuministi avevano chiamato "il lume della ragione". 

La Rivoluzione francese ha innegabilmente al cuore una forza eversiva del passato: il passato deve essere distrutto, addirittura nella sua consistenza materiale, nella realtà delle sue istituzioni e dei suoi costumi, nelle grandi espressioni culturali, artistiche e poetiche: perché tutto nel passato grida lacrime e sangue e l’uomo invece non deve più soffrire.

La politica, la nuova religione, che pretenderà di imporre a tutti i francesi il culto della dea ragione, è la sola in grado di garantire "la felicità degli uomini sulla terra" 

(cfr. "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino"). 

Ma la tradizione non era un passato, la tradizione era un presente: nella presenza della Chiesa come popolo di Dio presente nel mondo la tradizione segnava la vita della persona e della società, rivelava ancora una capacità di educazione della persona e di fondazione di rapporti culturali e sociali. 

Per questo motivo, dall’Assemblea degli Stati Generali (1789) fino al regicidio (1793), ed al Terrore giacobìno, la Rivoluzione francese assume un volto innegabilmente anti-ecclesiale ed anti-ecclesiastico. 

L’inizio di questa lotta contro la Chiesa francese è la Costituzione civile del clero (1790). La Chiesa francese, in quanto tende ad essere una struttura della vita sociale ed a proporre una cultura, una morale ed una immagine di società che nascono dalla fede, deve accettare di essere "formata dallo Stato". 

Mentre ufficialmente sì parla di "separazione della Chiesa dallo stato", in realtà la Chiesa viene strettamente legata alla struttura giuridica ed amministrativa dello Stato. 

Per essere Chiesa, la Chiesa francese deve accettare di avere un riconoscimento civile dallo Stato. 

Così le oltre trecento diocesi francesi vengono ridotte a meno dì cento e fatte coincidere con i dipartimenti, le parrocchie vengono forzosamente fatte coincidere con le province: vescovi e parroci vengono eletti dalle assemblee degli aventi diritto al voto (meno dello 0,5% di tutto il popolo francese). 

Viene spezzato il vincolo di comunione e di dipendenza dal Papa, a cui viene riconosciuto soltanto un primato di onore e non di giurisdizione.

Una infima minoranza del clero francese giura la Costituzione civile e formerà così la chiesa "giurata"; la quasi totalità del clero francese rifiuterà il giuramento (e formerà la cosiddetta "chiesa refrattaria"). 

Centinaia di migliaia di cattolici francesi scriveranno una delle pagine più fulgide del martirio della Chiesa nei tempi moderni. 

Giovanni Paolo II canonizzerà questa parte importante del popolo cattolico di Francia, martire, nella varietà delle sue vocazioni: vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi, padri e madri di famiglia, anche fanciulli di pochi anni. Sono per noi il segno eloquente e commovente che la missione ecclesiale si svolge sempre nell’orizzonte del martirio. 

La Rivoluzione insieme alla Chiesa rifiuta anche la monarchia. 

Occorre intendersi bene. 

La monarchia non è anzitutto da considerarsi come una determinata procedura nell’esercizio del potere; la monarchia francese è la testimonianza, al di là della grandezza o povertà dei singoli monarchi, che la radice dello Stato e del potere è di carattere religioso.

Il re di Francia, incoronato nella cattedrale di Reims in una fastosa cerimonia sacramentale ed unto con il crisma delle ordinazioni episcopali, è innanzitutto il padre ed il custode della fede del popolo di Francia e della libertà della Chiesa: il suo potere effettivo di governo è certamente ampiamente condizionato da una struttura di partecipazione del clero e dei nobili e successivamente anche dei più alti esponenti della classe borghese. 

"Il re deve morire perché è il re": così tuonò Robespierre alla Convenzione, durante quel processo che gli storici più seri di oggi sono inclini a considerare più una farsa" che una cosa seria.

        Così dalla convergenza di anti-ecclesialità e di rifiuto della monarchia, tende a nascere, in piena Europa e su suolo francese. 

        Il primo esperimento di una struttura politica chiusa in se stessa, che non riconosce nessuna istanza, né a sé, né accanto a sé: quella struttura totalitaria, che a qualche anno dalla solenne Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino ha potuto condannare a morte decine di migliaia di francesi solo sulla base di semplici "sospetti 

("la legge dei sospetti").

La giustizia è una giustizia "giacobina": è l’inizio di quelle giustizie aggettivate 

(fascista, nazista, comunista, popolare) che l’ultimo secolo ha tragicamente sperimentato sulla propria pelle e nella devastazione della propria coscienza. 

La Rivoluzione francese non deve essere, comunque, demonizzata: in certi settori della vita sociale ha segnato degli indubbi progressi nei confronti di situazioni che potrebbero essere definite "di stagnazione": ma è indubbio che nelle sue spinte propulsive e nel processo culturale, sociale e politico che ha iniziato, e che la storia ha rigorosamente condotto a compimento, la Rivoluzione francese ha determinato quel totalitarismo politico nel quale l’umanità europea, e non solo, ha rischiato di naufragare.

https://www.altaterradilavoro.com/considerazioni-sulla-rivoluzione-francese

www.santiebeati.it/dettaglio/94613

https://associazione-legittimista-italica.blogspot.com/2011/11/considerazioni-sulla-rivoluzione.html

https://www.vietatoparlare.it/considerazioni-sulla-rivoluzione-francese-di-luigi-negri/

https://www.altaterradilavoro.com/il-contesto-della-rivoluzione-francese/

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Quanta Cura 

https://www.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html

SILLABO:

[ELENCO] DEI PRINCIPALI ERRORI DELL’ETÀ NOSTRA, CHE SON NOTATI NELLE ALLOCUZIONI CONCISTORIALI, NELLE ENCICLICHE E IN ALTRE LETTERE APOSTOLICHE DEL SS. SIGNOR NOSTRO PAPA PIO IX


I - Panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto


I. Non esiste niun Essere divino, supremo, sapientissimo, provvidentissimo, che sia distinto da quest’universo, e Iddio non è altro che la natura delle cose, e perciò va soggetto a mutazioni, e Iddio realmente vien fatto nell’uomo e nel mondo, e tutte le cose sono Dio ed hanno la sostanza stessissima di Dio; e Dio è una sola e stessa cosa con il mondo, e quindi si identificano parimenti tra loro, spirito e materia, necessità e libertà, vero e falso, bene e male, giusto ed ingiusto.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


II. È da negare qualsiasi azione di Dio sopra gli uomini e il mondo.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


III. La ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male indipendentemente affatto da Dio; essa è legge a se stessa, e colle sue forze naturali basta a procurare il bene degli uomini e dei popoli.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


IV. Tutte le verità religiose scaturiscono dalla forza nativa della ragione umana; laonde la ragione è la prima norma, per mezzo di cui l’uomo può e deve conseguire la cognizione di tutte quante le verità, a qualsivoglia genere esse appartengano.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


V. La rivelazione divina è imperfetta, e perciò soggetta a processo continuo e indefinito, corrispondente al progresso della ragione umana.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


VI. La fede di Cristo si oppone alla umana ragione; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce anzi alla perfezione dell’uomo.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


VII. Le profezie e i miracoli esposti e narrati nella sacra Scrittura sono invenzioni di poeti, e i misteri della fede cristiana sono il risultato di indagini filosofiche; e i libri dell’Antico e Nuovo Testamento contengono dei miti; e Gesù stesso è un mito.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


II - Razionalismo moderato


VIII. Siccome la ragione umana si equipara colla stessa religione, perciò le discipline teologiche si devono trattare al modo delle filosofiche.


condannato da: Singulari quadam perfusi, 9 dicembre 1854.


IX. Tutti indistintamente i dommi della religione cristiana sono oggetto della naturale scienza ossia filosofia, e l’umana ragione, storicamente solo coltivata, può colle sue naturali forze e principi pervenire alla vera scienza di tutti i dommi, anche i più reconditi, purché questi dommi siano stati alla stessa ragione proposti.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.


Lett. al medesimo Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


X. Altro essendo il filosofo ed altro la filosofia, quegli ha diritto e ufficio di sottomettersi alle autorità che egli ha provato essere vere: ma la filosofia né può, né deve sottomettersi ad alcuna autorità.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.


Lett. al medesimo Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


XI. La Chiesa non solo non deve mai correggere la filosofia, ma anzi deve tollerarne gli errori e lasciare che essa corregga se stessa.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.


XII. I decreti della Sede apostolica e delle romane Congregazioni impediscono il libero progresso della scienza.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


XIII. Il metodo e i principi, coi quali gli antichi Dottori scolastici coltivarono la teologia, non si confanno alle necessità dei nostri tempi e al progresso delle scienze.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


XIV. La filosofia si deve trattare senza aver riguardo alcuno alla soprannaturale rivelazione.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


N. B. – Col sistema del razionalismo sono in massima parte uniti gli errori di Antonio Günther, che vengono condannati nella Lett. al Card. Arciv. di Colonia, Eximiam tuam, 15 giugno 1847, e nella Lett. al Vesc. di Breslavia, Dolore haud mediocri, 30 aprile 1860.


III - Indifferentismo, latitudinarismo


XV. È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


XVI. Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


condannato da: Ubi primum, 17 dicembre 1847.


Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.


XVII. Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo.


condannato da: Singulari quadam, 9 dicembre 1854.


Encicl. Quanto conficiamur, 17 agosto 1863.


XVIII. Il protestantesimo non è altro che una forma diversa della medesima vera religione cristiana, nella quale egualmente che nella Chiesa cattolica si può piacere a Dio.


Encicl. Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.


IV - Socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali


Tali pestilenze, spesso, e con gravissime espressioni, sono riprovate nella Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846; nella condannato da:Quibus quantisque, 20 aprile 1849: nella Epist. Encicl. Nostis et Nobiscum, 8 dicembre 1849; nella condannato da: Singulari quadam, 9 dicembre 1854; nell’Epist. Quanto conficiamur, 10 agosto 1863.


V - Errori sulla Chiesa e suoi diritti


XIX. La Chiesa non è una vera e perfetta società pienamente libera, né è fornita di suoi propri e costanti diritti, conferitile dal suo divino Fondatore, ma tocca alla potestà civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti entro i quali possa esercitare detti diritti.


condannato da: Singulari quadam, 9 dicembre 1854.


condannato da: Multis gravibusque, 18 dicembre 1860.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


XX. La potestà ecclesiastica non deve esercitare la sua autorità senza licenza e consenso del governo civile.


condannato da: Meminit unusquisque, 30 settembre 1861.


XXI. La Chiesa non ha potestà di definire dommaticamente che la religione della Chiesa cattolica sia l’unica vera religione.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


XXII. L’obbligazione che vincola i maestri e gli scrittori cattolici, si riduce a quelle cose solamente, che dall’infallibile giudizio della Chiesa sono proposte a credersi da tutti come dommi di fede.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


XXIII. I Romani Pontefici ed i Concilii ecumenici si scostarono dai limiti della loro potestà, usurparono i diritti dei Principi, ed anche nel definire cose di fede e di costumi errarono.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


XXIV. La Chiesa non ha potestà di usare la forza, né alcuna temporale potestà diretta o indiretta.


Lett. Apost. Ad Apostolicae, 22 agosto 1851.


XXV. Oltre alla potestà inerente all’episcopato, ve n’è un’altra temporale che è stata ad esso concessa o espressamente o tacitamente dal civile impero il quale per conseguenza la può revocare, quando vuole.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


XXVI. La Chiesa non ha connaturale e legittimo diritto di acquistare e di possedere.


condannato da: Nunquam fore, 15 dicembre 1856.


Lett. Encicl. Incredibili, 17 settembre 1863.


XXVII. I sacri ministri della Chiesa ed il Romano Pontefice debbono essere assolutamente esclusi da ogni cura e da ogni dominio di cose temporali.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


XXVIII. Ai Vescovi, senza il permesso del Governo, non è lecito neanche promulgare le Lettere apostoliche.


condannato da: Nunquam fore, 15 dicembre 1856.


XXIX. Le grazie concesse dal Romano Pontefice si debbono stimare irrite, quando non sono state implorate per mezzo del Governo.


condannato da: Nunquam fore, 15 dicembre 1856.


XXX. L’immunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche ebbe origine dal diritto civile.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


XXXI. Il foro ecclesiastico per le cause temporali dei chierici, siano esse civili o criminali, dev’essere assolutamente abolito, anche senza consultare la Sede apostolica, e nonostante che essa reclami.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


condannato da: Nunquam fore, 15 dicembre 1856.


XXXII. Senza violazione alcuna del naturale diritto e delle equità, si può abrogare l’immunità personale, in forza della quale i chierici sono esenti dalla leva e dall’esercizio della milizia; e tale abrogazione è voluta dal civile progresso, specialmente in quelle società le cui costituzioni sono secondo la forma del più libero governo.


Epist. al Vescovo di Monreale Singularis Nobisque, 29 sett. 1864.


XXXIII. Non appartiene unicamente alla ecclesiastica potestà di giurisdizione, qual diritto proprio e connaturale, il dirigere l’insegnamento della teologia.


Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.


XXXIV. La dottrina di coloro che paragonano il Romano Pontefice ad un Principe libero che esercita la sua azione in tutta la Chiesa, è una dottrina la quale prevalse nel medio evo.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


XXXV. Niente vieta che per sentenza di qualche Concilio generale, o per opera di tutti i popoli, il sommo Pontificato si trasferisca dal Vescovo Romano e da Roma ad un altro Vescovo e ad un’altra città.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


XXXVI. La definizione di un Concilio nazionale non si può sottoporre a verun esame, e la civile amministrazione può considerare tali definizioni come norma irretrattabile di operare.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


XXXVII. Si possono istituire Chiese nazionali non soggette all’autorità del Romano Pontefice, e del tutto separate.


condannato da: Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.


condannato da: Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.


XXXVIII. Gli arbìtri eccessivi dei Romani Pontefici contribuirono alla divisione della Chiesa in quella di Oriente e in quella di Occidente.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


VI - Errori che riguardano la società civile, considerata in sé come nelle sue relazioni con la Chiesa


XXXIX. Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


XL. La dottrina della Chiesa cattolica è contraria al bene ed agl’interessi della umana società.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


condannato da: Quibus quantisque, 20 aprile 1849.


XLI. Al potere civile, anche esercitato dal signore infedele, compete la potestà indiretta negativa sopra le cose sacre; perciò gli appartiene non solo il diritto del cosidetto exequatur, ma anche il diritto del cosidetto appello per abuso.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


XLII. Nella collisione delle leggi dell’una e dell’altra potestà, deve prevalere il diritto civile.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


XLIII. Il potere laicale ha la potestà di rescindere, di dichiarare e far nulli i solenni trattati (che diconsi Concordati) pattuiti con la Sede apostolica intorno all’uso dei diritti appartenenti alla immunità ecclesiastica; e ciò senza il consenso della stessa Sede apostolica, ed anzi, malgrado i suoi reclami.


condannato da: In Concistoriali, 1° novembre 1850.


condannato da: Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.


XLIV. L’autorità civile può interessarsi delle cose che riguardano la religione, i costumi ed il governo spirituale. Quindi può giudicare delle istruzioni che i pastori della Chiesa sogliono dare per dirigere, conforme al loro ufficio, le coscienze, ed anzi può fare regolamenti intorno all’amministrazione dei Sacramenti ed alle disposizioni necessarie per riceverli.


condannato da: In Concistoriali, 1° novembre 1850.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


XLV. L’intero regolamento delle pubbliche scuole, nelle quali è istruita la gioventù dello Stato, eccettuati solamente sotto qualche riguardo i Seminari vescovili, può e dev’essere attribuito all’autorità civile; e talmente attribuito, che non si riconosca in nessun’altra autorità il diritto di intromettersi nella disciplina delle scuole, nella direzione degli studi, nella collazione dei gradi, nella scelta e nell’approvazione dei maestri.


condannato da: In Concistoriali, 1° novembre 1850.


condannato da: Quibus luctuosissimis, 5 settembre 1851.


XLVI. Anzi, negli stessi Seminari dei Chierici, il metodo da adoperare negli studi è soggetto alla civile autorità.


condannato da: Numquam fore, 15 dicembre 1856.


XLVII. L’ottima forma della civile società esige che le scuole popolari, quelle cioè che sono aperte a tutti i fanciulli di qualsiasi classe del popolo, e generalmente gl’istituti pubblici, che sono destinati all’insegnamento delle lettere e delle più gravi discipline, nonché alla educazione della gioventù, si esimano da ogni autorità, forza moderatrice ed ingerenza della Chiesa, e si sottomettano al pieno arbitrio dell’autorità civile e politica secondo il placito degli imperanti e la norma delle comuni opinioni del secolo.


Epist. all’Arciv. di Frisinga Quum non sine, 14 luglio 1864.


XLVIII. Può approvarsi dai cattolici quella maniera di educare la gioventù, la quale sia disgiunta dalla fede cattolica, e dall’autorità della Chiesa e miri solamente alla scienza delle cose naturali, e soltanto o per lo meno primieramente ai fini della vita sociale.


Epist. all’Arciv. di Frisinga Quum non sine, 14 luglio 1864.


IL. La civile autorità può impedire ai Vescovi ed ai popoli fedeli di comunicare liberamente e mutuamente col Romano Pontefice.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


L. L’autorità laicale ha di per sé il diritto di presentare i Vescovi e può esigere da loro che incomincino ad amministrare le diocesi prima che essi ricevano dalla S. Sede la istituzione canonica e le Lettere apostoliche.


condannato da: Nunquam fore, 15 dicembre 1856.


LI. Anzi il Governo laicale ha diritto di deporre i Vescovi dall’esercizio del ministero pastorale, né è tenuto ad obbedire al Romano Pontefice nelle cose che spettano alla istituzione dei Vescovati e dei Vescovi.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


LII. Il Governo può di suo diritto mutare l’età prescritta dalla Chiesa in ordine alla professione religiosa tanto delle donne quanto degli uomini, ed ingiungere alle famiglie religiose di non ammettere alcuno ai voti solenni senza suo permesso.


condannato da: Nunquam fore, 15 dicembre 1856.


LIII. Sono da abrogarsi le leggi che appartengono alla difesa dello stato delle famiglie religiose, e dei loro diritti e doveri; anzi il Governo civile può dare aiuto a tutti quelli i quali vogliono disertare la maniera di vita religiosa intrapresa, e rompere i voti solenni; e parimenti, può spegnere del tutto le stesse famiglie religiose, come anche le Chiese collegiate ed i benefici semplici ancorché di giuspatronato e sottomettere ed appropriare i loro beni e le rendite all’amministrazione ed all’arbitrio della civile potestà.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


condannato da: Probe memineritis, 22 gennaio 1855.


condannato da: Cum saepe, 27 luglio 1855.


LIV. I Re e i Principi non solamente sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa, ma anzi nello sciogliere le questioni di giurisdizione sono superiori alla Chiesa.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


LV. È da separarsi la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


VII - Errori circa la morale naturale e cristiana


LVI. Le leggi dei costumi non abbisognano della sanzione divina, né è necessario che le leggi umane siano conformi al diritto di natura, o ricevano da Dio la forza di obbligare.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


LVII. La scienza delle cose filosofiche e dei costumi, ed anche le leggi civili possono e debbono prescindere dall’autorità divina ed ecclesiastica.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


LVIII. Non sono da riconoscere altre forze se non quelle che sono poste nella materia, ed ogni disciplina ed onestà di costumi si deve riporre nell’accumulare ed accrescere in qualsivoglia maniera la ricchezza e nel soddisfare le passioni.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


Epistola encicl. Quanto conficiamur, 10 agosto 1863.


LIX. Il diritto consiste nel fatto materiale; tutti i doveri degli uomini sono un nome vano, e tutti i fatti umani hanno forza di diritto.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


LX. L’autorità non è altro che la somma del numero e delle forze materiali.


condannato da: Maxima quidem, 9 giugno 1862.


LXI. La fortunata ingiustizia del fatto non apporta alcun detrimento alla santità del diritto.


condannato da: Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.


LXII. È da proclamarsi e da osservarsi il principio del cosidetto non-intervento.


condannato da: Novos et ante, 28 settembre 1860.


LXIII. Il negare obbedienza, anzi il ribellarsi ai Principi legittimi, è cosa logica.


Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.


condannato da: Quisque vestrum, 4 ottobre 1847.


Epist. Encicl. Nostis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.


Lett. Apost. Cum catholica, 26 marzo 1860.


LXIV. La violazione di qualunque santissimo giuramento e qualsivoglia azione scellerata e malvagia ripugnante alla legge eterna, non solo non sono da riprovare, ma anzi da tenersi del tutto lecite e da lodarsi sommamente, quando si commettano per amore della patria.


condannato da: Quibus quantisque, 20 aprile 1849.


VIII - Errori circa il matrimonio cristiano


LXV. Non si può in alcun modo tollerare che Cristo abbia elevato il matrimonio alla dignità di Sacramento.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


LXVI. Il Sacramento del matrimonio non è che una cosa accessoria al contratto, e da questo separabile, e lo stesso Sacramento è riposto nella sola benedizione nuziale.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


LXVII. Il vincolo del matrimonio non è indissolubile per diritto di natura, ed in vari casi può sancirsi per la civile autorità il divorzio propriamente detto.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


LXVIII. La Chiesa non ha la potestà d’introdurre impedimenti dirimenti il matrimonio, ma tale potestà compete alla autorità civile, dalla quale debbono togliersi gl’impedimenti esistenti.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


LXIX. La Chiesa incominciò ad introdurre gl’impedimenti dirimenti, nei secoli passati non per diritto proprio, ma usando di quello che ricevette dalla civile potestà.


Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.


LXX. I canoni tridentini, nei quali s’infligge scomunica a coloro che osano negare alla Chiesa la facoltà di stabilire gl’impedimenti dirimenti, o non sono dommatici, ovvero si debbono intendere dell’anzidetta potestà ricevuta.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


LXXI. La forma del Concilio Tridentino non obbliga sotto pena di nullità in quei luoghi, ove la legge civile prescriva un’altra forma, e ordina che il matrimonio celebrato con questa nuova forma sia valido.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


LXXII. Bonifazio VIII per primo asserì che il voto di castità emesso nella ordinazione fa nullo il matrimonio.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


LXXIII. In virtù del contratto meramente civile può aver luogo tra cristiani il vero matrimonio; ed è falso che, o il contratto di matrimonio tra cristiani è sempre sacramento, ovvero che il contratto è nullo se si esclude il sacramento.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


Lett. di S. S. Pio IX al Re di Sardegna, 9 settembre 1852.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


condannato da: Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.


LXXIV. Le cause matrimoniali e gli sponsali di loro natura appartengono al foro civile.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


N. B. – Si possono qui ridurre due altri errori, dell’abolizione del celibato de; chierici, e della preferenza dello stato di matrimonio allo stato di verginità. Sono condannati, il primo nell’Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846, il secondo nella Lettera Apost.Multiplices inter, 10 giugno 1851.


IX - Errori intorno al civile principato del Romano Pontefice


LXXV. Intorno alla compatibilità del regno temporale col regno spirituale disputano tra loro i figli della Chiesa cristiana e cattolica.


Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.


LXXVI. L’abolizione del civile impero posseduto dalla Sede apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà ed alla prosperità della Chiesa.


condannato da: Quibus quantisque, 20 aprile 1849.


N. B. – Oltre a questi errori censurati esplicitamente, molti altri implicitamente vengono riprovati in virtù della dottrina già proposta e decisa intorno al principato civile del Romano Pontefice: la quale dottrina tutti i cattolici sono obbligati a rispettare fermissimamente. Essa apertamente s’insegna nell’condannato da: Quibus quantisque, 20 aprile 1849; nell’condannato da: Si semper antea, 20 maggio 1850; nella Lett. Apost.Cum catholica Ecclesia, 26 marzo 1860; nell’condannato da: Novos, 28 settembre 1860; nell’condannato da: Iamdudum, 18 marzo 1861, e nell’condannato da:Maxima quidem, 9 giugno 1862.


X - Errori che si riferiscono all’odierno liberalismo


LXXVII. In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti, quali che si vogliano.


condannato da: Nemo vestrum, 26 luglio 1855.


LXXVIII. Però lodevolmente in alcuni paesi cattolici si è stabilito per legge che a coloro i quali vi si recano, sia lecito avere pubblico esercizio del culto proprio di ciascuno.


condannato da: Acerbissimum, 27 settembre 1852.


LXXIX. È assolutamente falso che la libertà civile di qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti concessa di manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed in pubblico, conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei popoli, e a diffondere la peste dell’indifferentismo.


condannato da: Numquam fore, 15 dicembre 1856.


LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà.


condannato da: Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.


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Martiri della guerra civile spagnola

I martiri della guerra civile spagnola sono i sacerdoti, religiosi e i laici cattolici spagnoli che furono uccisi durante la guerra civile spagnola (1936-1939) e nei quali la Chiesa ha ritenuto di individuare gli elementi caratteristici del martirio cristiano. Alcuni sono stati canonizzati (11), molti beatificati, la maggior parte nel 2001 (233), nel 2007 (498) e nel 2013 (522).


Al 6 novembre 2021 si contavano 2040 beati e 11 santi.


Il 14 aprile 1931 iniziò la seconda repubblica spagnola, con la proclamazione della Repubblica e l'esilio del re Alfonso XIII. In tale circostanza la Chiesa cattolica, con papa Pio XI, aveva invitato i cattolici alla collaborazione con il nuovo governo, nell'interesse della Spagna.


Tuttavia, appena un mese dopo la proclamazione della Repubblica, iniziò una forte ondata di anticlericalismo, con i primi atti di violenza nei confronti di religiosi e laici, anche a causa del malcontento verso l'appoggio che la Chiesa spagnola avrebbe dato ai ceti dominanti, in particolar modo ai latifondisti e, in seguito, al generale Franco. La violenza colpì però indiscriminatamente anche molte persone estranee alle vicende politiche.


Il maggior numero di episodi di violenza si registrarono dopo il 1936, dopo la vittoria del Fronte Popolare spagnolo, formato da socialisti, comunisti e antifascisti sul modello del Fronte Popolare francese. Le violenze si intensificarono tra il 18 luglio 1936 e il 1º aprile 1939, dando origine a una vera e propria persecuzione religiosa, che portò alla distruzione del 70% delle chiese spagnole e all'uccisione di quasi diecimila persone, tra le quali 12 vescovi, 4.184 sacerdoti e seminaristi, 2.365 religiosi, 283 religiose e diverse migliaia di laici di entrambi i sessi, il cui numero è tuttavia impossibile precisare[1].


I 12 vescovi uccisi furono:


Florentino Asensio Barroso, amministratore apostolico di Barbastro (1877-1936);

Manuel Basulto y Jiménez, vescovo di Jaén (1869-1936);

Manuel Borras y Ferré, vescovo ausiliare di Tarragona (1880-1936);

Narciso de Esténaga y Echevarría, priore nullis di Ciudad Real (1882-1936);

Salvio Huix Miralpeix, vescovo di Lérida (1877-1936);

Manuel Irurita y Almándoz, vescovo di Barcellona (1876-1936);

Cruz Laplana y Laguna, vescovo di Cuenca (1875-1936);

Manuel Medina Olmos, vescovo di Guadix (1869-1936);

Eustaquio Nieto y Martín, vescovo di Sigüenza (1866-1936);

Anselmo Polanco Fontecha, vescovo di Teruel e amministratore apostolico di Albarracín (1881-1939);

Miguel de los Santos Serra y Sucarrats, vescovo di Segorbe (1868-1936) e

Diego Ventaja Milán, vescovo di Almería (1880-1936).

https://it.wikipedia.org/wiki/Martiri_della_guerra_civile_spagnola


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FOIBE

https://it.cathopedia.org/w/index.php?search=foibe&title=Speciale%3ARicerca&go=Vai


Azione Cattolica https://it.cathopedia.org/wiki/Azione_Cattolica

* beato [[Francesco Bonifacio]], sacerdote assistente assassinato e [[foibe|infoibato]] nel 1946.

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Giuseppe Maria Palatucci https://it.cathopedia.org/wiki/Giuseppe_Maria_Palatucci

* Valentino Izzo, ''APCF (Antisemitismo, Palatucci, Campagna, Foibe)'', [[2009]]

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Giovanni Palatucci https://it.cathopedia.org/wiki/Giovanni_Palatucci

* Valentino Izzo, ''APCF (Antisemitismo, Palatucci, Campagna, Foibe), 2009

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Beato Francesco Bonifacio https://it.cathopedia.org/wiki/Beato_Francesco_Bonifacio

...ampa ZENIT del 12 febbraio 2006: "Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe":]<br> ...i stampa ZENIT dell'8 luglio 2008: "Don Francesco Bonifacio, vittima delle foibe, presto beato. Rapito dalla guardie di Tito, venne ucciso "in odio alla fed

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Il costo umano del comunismo https://it.cathopedia.org/wiki/Il_costo_umano_del_comunismo

...Grecia, di Spagna, d'Italia, dell'Indonesia, delle fosse di Katyn e delle foibe jugoslave, dei milioni di uccisi a Cuba e nelle <democrazie popolari>, dei

9 KB (1 367 parole) - 07:20, 10 mag 2020



Il libro nero del comunismo europeo

https://it.cathopedia.org/wiki/Il_libro_nero_del_comunismo_europeo

Composizione dell'opera

Il libro è composto nel modo seguente:

Il libro nero del comunismo europeo -crimini, terrore, repressione- fu pubblicato in I edizione nel marzo 2006 da Mondadori: il titolo originale in lingua francese è Du passé faisons table rase! che significa del passato facciam tabula rasa.

prefazione

parte prima L'europa dopo il muro

capitolo I Del passato facciam tabula rasa! con le sezioni La morte del sistema comunista, Il mutamento del clima intellettuale, La rivoluzione documentale, La fine di un tabù, Del passato -comunista- facciam tabula rasa!, Il negazionismo comunista, L'impossibile <bilancio globalmente negativo>, La strumentalizzazione politica del <Libro nero>, <Le Monde>, tra storia del comunismo e memoria comunista, Gli abiti non troppo nuovi della storiografia comunista, Lo scarto tra l'ideale e la realtà del comunismo, La gloriosa memoria del comunismo nell'Europa occidentale, L'Europa dell'Est, malata di comunismo, Morte del comunismo e rinascita della civiltà europea. Numero di note: 272.

capitolo II La cecità volontaria nel regime comunista. Numero di note: 1.

capitolo III Il bolscevismo, malattia sociale del XX secolo

capitolo IV La pratica dell'atrocità. Numero di note: 9.

parte seconda All'Est

capitolo I L'Estonia e il comunismo con le sezioni La diffusione del marxismo in Estonia in epoca zarista, I comunisti estoni nella rivoluzione mondiale, La fine dell'indipendenza dell'Estonia, Il terrore rosso e la politica di genocidio, I comunisti al servizio dell'occupante, La russificazione, L'economia coloniale, Il richiamo all'ordine della società civile, Il crollo del regime d'occupazione. Numero di note: 212.

capitolo II La Bulgaria sotto il giogo comunista. Crimini, resistenze e repressioni con le sezioni Il contesto storico, L'ascesa al potere di un piccolo partito, Il partito comunista impone il monopolio staliniano, Dopo Stalin, Todor Zivkov!. Numero di note: 9.

capitolo III Il sistema repressivo comunista in Romania con le sezioni Il contesto storico, Alleati o forza di occupazione?, La deviazione della giustizia, Gli organi di repressione, Le punizioni, I metodi di <rieducazione>: il fenomeno Pitesti, La resistenza armata, La collettivizzazione, L'asservimento delle Chiese, L'imbavagliamento della cultura, Il risorgere della protesta. Numero di note: 143.

capitolo IV I crimini politici nella RDT con le sezioni La fuga dalla Storia, Comunismo sovietico e comunismo <tedesco>, La <liquidazione> della società e il tradimento, Repressione e violenza, fenomeni della rivoluzione permanente, Il 1990: l'apertura della Storia. Numero di note: 104.

parte terza All'Ovest

capitolo I Le vittime greche del comunismo con le sezioni La tragedia delle comunità greche in URSS, Perchè mi uccidi, compagno?, La repressione dei greci esiliati nell'Europa dell'Est. Numero di note: 33.

capitolo II Togliatti e la difficile eredità del comunismo italiano con le sezioni L'irresistibile ascesa di un vero leninista-stalinista, Togliatti liquidatore di comunisti, italiani e non, La guerra e l'atteggiamento di Togliatti di fronte alla sorte dei prigionieri italiani in URSS, La fine della guerra e una <pulizia etnica> dimenticata: le foibe, L'epurazione antifascista e il dopoguerra. Numero di note: 79.

Le note riportano una bibliografia notevole di storici e studiosi importanti, tra i quali figurano: Francois Furet, Robert Conquest, Nicolas Werth, Annie Kriegel, Ernst Nolte, Alain de Benoist, Horst Moller, Jacque Rossi, Victor Zaslavsky, Hannah Arendt, Gheorghe Boldur-Latescu, Anne Appelbaum, Arrigo Petacco, Gianni Oliva.


Questioni considerate

Prima parte

Nella prima parte gli autori considerano la fine e il fallimento del comunismo marxista in Europa valutando tutte le statistiche riguardanti la situazione economica e quella della repressione che ha provocato un numero impressionante di vittime uccise. Viene data importanza alla memoria storica e alla bibliografia che ricorda le vittime del comunismo stigmatizzando il negazionismo di taluni ancòra ideologicamente abbacinati dalla tesi marxista, che nel libro viene smontata e ridicolizzata. Citando i casi delle nazioni nelle quali la fine delle dittature non è stata traumatica si legge: Sarebbe tuttavia disastroso che la non traumatica uscita di scena del comunismo si concludesse con la pura e semplice cancellazione della memoria della tragedia, con l'oblio delle sue innumerevoli vittime e con l'occultamento degli altrettanto numerosi carnefici che, giorno dopo giorno, per decenni, hanno assicurato la sopravvivenza di quei regimi totalitari. Ma amnesia organizzata e amnistia strisciante sono diventate per interi gruppi una strategia volta a garantire l'impunità e al tempo stesso a difendere le posizioni acquisite nel settore politico e in quello economico. Nei paesi della <restaurazione> o della <riconversione>, il potere, che non è stato decomunistizzato, sembra infatti volere fare 'del passato -comunista- tabula rasa'. Non solo gli archivi non vengono aperti -o vengono richiusi- ma i latori della memoria della tragedia rischiano di essere oggetto di manovre intimidatorie, mentre i carnefici si godono il loro "buen retiro" nella più completa impunità.[1] Dopo si legge: I marxisti dell'inizio del XX secolo -russi e tedeschi in particolare- avevano una visione deformata della legge, della socializzazione dell'individuo, della costruzione di una società sana. Tutti i tentativi mirati alla creazione di una teoria dell'individuo erano, in realtà, solo la traduzione pratica di un'immane demagogia politica. Inoltre, come si può pensare di poter raggiungere il completo sviluppo dell'individuo, se la sua educazione è fondata sul concetto di classe? Un simile uso della nozione di classe nega, squalificandoli, fattori di integrazione sociale che hanno una funzione diretta nel preservare l'umanità dell'uomo, quali la morale universale, la religione e la famiglia.[2] Lo storico Martin Malia è autore del capitolo La pratica dell'atrocità, che è il titolo di un suo libro pubblicato nel 1999. Malia riferendosi a il libro nero del comunismo afferma: Un simile approccio fattuale ricolloca il comunismo in quella che, nonostante tutto, è la sua prospettiva umana fondamentale, considerando che esso è stato veramente <una tragedia di dimensioni planetarie> (per riprendere le parole dell'ispiratore francese dell'opera), con un numero totale di vittime che i vari coautori indicano comprese tra gli ottantacinque e i cento milioni. In un caso come nell'altro, il record comunista costituisce la più colossale carneficina politica della storia.[3] Dopo si legge: Dal canto loro, le èlite occidentali intellettualmente compromesse con il comunismo sono passate dal negazionismo militante al relativismo scettico e oggi ostentano un'amnesia di bassa lega che tende a fare tabula rasa del passato. Si capisce, quindi, che non abbiano alcun desiderio di vedere emergere la verità su questi regimi che hanno esse stesse contribuito a presentare per molto tempo come l'avvenire radioso dell'Umanità.[4]


Seconda parte

La seconda parte considera l'occupazione sovietica di Estonia, Bulgaria, Romania e RDT. Gli autori descrivono i metodi sovietici di repressione attuati con la complicità dei comunisti di tali nazioni e i movimenti di resistenza anticomunista.


Nel capitolo III nella sezione L'asservimento delle Chiese riguardo la repressione delle varie Chiese in Romania si descrive come tutti i culti religiosi furono di fatto resi illegali e considerati sovversivi contro lo Stato comunista. Gli storici riportano il parziale contenuto delle leggi comuniste rumene contro preti e fedeli dei vari credi confessionali. Infatti per secoli la Romania cristiana fu oggetto delle mire espansionistiche dell'impero ottomano e decine di guerre la opposero alla potenza musulmana con il pieno appoggio delle Chiese cristiane. Nel corso dei secoli la Chiesa ortodossa rumena e la Chiesa greco-cattolica rumena, definita “uniate” e radicata in Transilvania, ebbero un ruolo essenziale nell'identità e coesione nazionali. Dopo il 1945 le Chiese erano l'ultimo grande ostacolo per il potere comunista ma i rumeni non applicarono il metodo sovietico di repressione. I comunisti rumeni imposero una legge che stipendiava i preti sottomessi: il patriarca Nicodemo morì in modo sospetto il 28 febbraio 1948 sostituito dal patriarca Giustiniano. La legge sui culti religiosi del 4 agosto 1948 istituì il controllo totale del governo dittatoriale sulle Chiese; in tale legge l'articolo 13 stabiliva che il riconoscimento legale di un culto poteva essere revocato in qualsiasi momento e l'articolo 32 stabiliva che i sacerdoti esprimenti punti di vista antidemocratici potevano essere privati dello stipendio statale. Molte scuole private e pubbliche cristiane, associazioni, chiese, monasteri furono chiusi e si proibirono le celebrazioni pubbliche religiose, comprese quelle più partecipate di Natale e Pasqua. Inoltre la legge mise l'elezione dei vescovi ortodossi sotto il totale controllo dello Stato comunista e impose alla Chiesa ortodossa un nuovo statuto per poterla controllare: allora si contavano 10,5 milioni di fedeli ortodossi su 15,9 milioni di abitanti. La Chiesa Cattolica Romana e greco-cattolica uniate con i loro vescovi diedero prova di grande dignità, coraggio e fedeltà al loro credo: il 17 luglio 1948 fu denunciato il concordato con il Vaticano mettendo nei fatti fuori legge il culto cattolico e nell'autunno 1948 la Chiesa uniate fu dichiarata illegale quando contava un milione e mezzo di fedeli con 1725 chiese per celebrare messa. Inoltre contro rabbini e fedeli ebrei furono vietati i loro riti religiosi e le sinagoghe vennero quasi tutte chiuse. [5]


Terza parte

La terza parte è dedicata ai crimini commessi da comunisti greci e italiani con focalizzazione su Palmiro Togliatti. Nella sezione La fine della guerra e una <pulizia etnica> dimenticata: le foibe, dopo aver descritto l'italianizzazione forzata delle zone popolate da sloveni e croati, l'autore Philippe Baillet afferma: Ma nulla di tutto ciò può giustificare gli abominevoli massacri perpetrati dai partigiani titoisti, deliberatamente commessi per terrorizzare la popolazione italiana, provocarne l'esodo e condurre così a buon fine quella che merita di essere definita un'<epurazione etnica>. Dopo si legge: Tutte le testimonianze relative a questi massacri -che, interrotti nel settembre-ottobre 1943 a causa dell'occupazione della regione da parte delle truppe tedesche, ripresero a pieno ritmo e su più vasta scala, dal 1º maggio al 15 giugno 1945 - concordano sull'indicibile barbarie degli atti che furono commessi, i quali ricordano più le <imprese> dei serial killer che non le atrocità inevitabili in qualsiasi conflitto ideologico. Le vittime, essenzialmente membri dell'élite sociale e della classe media, venivano arrestate di notte. Si legavano loro le mani con il fil di ferro, quindi le si conduceva sull'orlo delle voragini, non senza averle sottoposte alle più ignobili sevizie. Prima di essere gettate nel baratro, le donne erano sistematicamente violentate, mentre gli uomini venivano talvolta svuotati delle viscere ed evirati. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le vittime, legate le une alle altre, erano uccise in questo modo: si spingeva la prima nel baratro che cadeva trascinandosi dietro le altre.[6]


Stime di vittime

Italia

Gli storici descrivono l'eccidio di Porzus dei ventidue combattenti della brigata Osoppo e riportano i dati del libro Foibe. Le stragi negate della Venezia Giulia e dell'Istria dello storico Gianni Oliva che calcola 10.137 vittime trucidate nei massacri delle foibe.[7]


Germania est

Nel capitolo III si legge: Tra i crimini comunisti che assunsero la forza di una distruzione di massa bisogna contare i dieci campi d'internamento che la NKVD aprì nel 1945, tre dei quali continuarono a esistere fino al 1950. Per due di essi vennero utilizzati degli ex campi di concentramento nazisti. La loro esistenza fu sistematicamente occultata in RDT fino al 1989 e solo nel 1990 incominciarono a emergere le prime informazioni su di essi: <Alcuni documenti di archivio sovietici provano che, nei campi in questione-che furono attivi dal 1945 al 1959 - furono rinchiusi 122.671 tedeschi, 45.262 dei quali vennero subito rilasciati. 14.202 detenuti vennero consegnati al ministero dell'Interno della RDT. 12.770 persone furono trasferite in U.R.S.S. e 6.680 condotte nei campi destinati ai prigionieri di guerra. Duecentododici detenuti riuscirono a fuggire. Durante tutto questo periodo, secondo i dati disponibili, 42.889 persone morirono di malattia, soprattutto tra il 1945 e 1947. Un tribunale militare condannò a morte 736 detenuti. Non è stata trovata negli archivi alcuna indicazione riguardante i luoghi d'inumazione>. Nel 1993 si è parlato di un massimo di 234.300 detenuti e di 105.500 morti, cifre che non tengono tuttavia conto di quanti morirono, non appena liberati, per i postumi della detenzione né di coloro che, deportati in U.R.S.S., non fecero mai più ritorno.[8]







S. S. Pio XI e S. E. Marconi inaugurano la nuova stazione a onde ultra corte che collega la Città

https://www.youtube.com/watch?v=QIW61g829ZA



pio IX

https://www.youtube.com/watch?v=NWYePdQqke4


pio IX 

https://www.youtube.com/watch?v=hjQmoEGr9_I


" Pio IX, Porta Pia e il Sillabo" di Walter Brandmuller

https://www.youtube.com/watch?v=kkO15UxyOuY


IL "SILLABO" DI PIO IX

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/chiesa-cattolica/4615-sillabo-di-pio-ix

Sillabo di Pio IX.pdf

http://www.accademianuovaitalia.it/media/com_form2content/documents/c3/a4613/f30/Sillabo%20di%20Pio%20IX.pdf


Incontro sul B. Pio IX, Firenze 20 settembre 2012. Intervengono i Professori Massimo de Leonardis, Massimo Viglione e Roberto de Mattei

https://www.youtube.com/watch?v=t3nx1m5829w


San Pio X: il film completo

https://www.youtube.com/watch?v=OMdUGAnYWHE

Uscito in occasione della sua beatificazione, questo bellissimo film del 1952 ricorda la vita di papa san Pio X, l'eroico pontefice che, fedele al proprio motto, "Instaurare omnia in Christo", ha combattuto con vigore tutti i nemici della Chiesa ed in particolare il cancro modernista, con l'enciclica "Pascendi". Il suo è un esempio smagliante per chiunque abbia veramente a cuore il bene della Chiesa.



IL BIENNIO ROSSO E L'AVVENTO DEL FASCISMO

https://www.youtube.com/watch?v=wUMsHXcuL0o



https://www.tweetingwithgod.com/it/content/244-cosera-il-concilio-vaticano-i


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La storia dei Cristeros messicani: ‘Viva Cristo Re!’

 https://www.papaboys.org/la-storia-dei-cristeros-messicani-viva-cristo-re/

2 Maggio 2016

 

Il 31 luglio 1926, in risposta alla cosiddetta “Ley Calles” (una legge che praticamente proibiva l’esistenza della Chiesa cattolica, decretata dal Presidente Plutarco Elías Calles) e all’espulsione di 185 sacerdoti stranieri che esercitavano il proprio ministero in Messico, l’episcopato messicano annunciava la sospensione del culto in tutte le chiese a partire dal 1° agosto.


Quel giorno le chiese si riempirono di credenti che cercavano di battezzare i propri figli, essere uniti in matrimonio o confessarsi e ricevere la Comunione. Fino al 29 giugno 1929 i templi rimasero chiusi in tutto il Paese. L’episcopato messicano affermò:


“Nell’impossibilità di continuare a esercitare il sacro ministero sacerdotale, in base alle condizioni imposte dal suddetto Decreto (la Legge Calles), dopo aver consultato il Nostro Santissimo Padre, Sua Santità Pio XI, e aver ottenuto la sua approvazione, ordiniamo che dal giorno trentuno luglio del presente anno fino a nuova disposizione si sospenda in tutti i templi della Repubblica il culto pubblico che richieda l’intervento del sacerdote”.


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Il 2 febbraio precedente, papa Pio XI aveva pubblicato l’enciclica Paterna Sane Solicitudo rivolta ai vescovi messicani, raccomandando di mantenere la calma e proibendo espressamente la formazione di un partito politico cattolico.L’inizio dei Cristeors – La rivolta dei cristeros inizia nel 1926 e si conclude, anche se non definitivamente, nel 1929. E cristeros deriva da Cristos Reyes, i “Cristi-Re”, come gli avversari definivano con intento spregiativo gli insorti cattolici che combattevano al grido di “Viva Cristo Re!”, riprendendo il tema della regalità di Cristo, all’epoca molto popolare e in sintonia con l’enciclica sull’istituzione della festa di Cristo Re “Quas primas”, pubblicata nel 1925 da Papa Pio XI (1922-1939). Nel Messico, nei secoli seguenti la scoperta e la conquista dell’America, era avvenuta una feconda fusione fra cattolicesimo e cultura indigena. La civiltà iberoamericana, una miscela di elementi senza eguali nel tempo e nello spazio, vi aveva dato frutti di grande originalità in tutti i campi, compresi quelli delle arti figurative e della musica. All’inizio del secolo XX questa cultura, con una religiosità luminosa, pubblica, sopravvive ancora, anche se allo stato residuale e subalterno, nei ceti popolari e rurali, mentre le classi alte e il ceto politico e intellettuale hanno ampiamente assorbito le idee illuministiche e liberali. Dagli inizi del secolo alla guida della repubblica presidenziale federale messicana, per lo più a seguito di colpi di Stato e di guerre civili, si era avvicendata una serie di generali o di despoti, espressione della fazione di volta in volta vincente all’interno dell’unico e intoccabile establishment massonico e laicista, prevalso nella seconda metà dell’Ottocento. Quando scoppia l’insurrezione cattolica è al potere un generale, Plutarco Elías Calles (1877-1945), che pratica una politica rigidamente “modernizzatrice” (il suo partito si autodefinisce “rivoluzionario istituzionale”), filostatunitense e con simpatie per il nascente socialismo latinoamericano. Questa politica porta il governo messicano a inasprire la lotta contro la Chiesa, vista non solo come centro sovranazionale di diffusione dell'”oppio del popolo” (secondo il cliché laicista) ma pure come bastione della conservazione e come ostacolo al latente totalitarismo statale. Il regime di Calles si differenzia dai precedenti per lo stile, il pugno di ferro, lo spirito da scontro epocale che egli ostenta, anche personalmente, nel realizzare la sua politica e che gli varrà, fra i cattolici, il nomignolo di “Nerone”.


Il conflitto fra Stato e Chiesa-. Nel 1917 il governo di Venustiano Carranza (1859-1920) vara una costituzione fortemente laicistica, che però non viene mai applicata. Nel 1926 il Governo Calles ordina ai governatori dei diversi Stati di emanare decreti volti a far applicare il dettato costituzionale in materia di disciplina dei culti. Essi prevedevano, di fatto, la radicale separazione fra Chiesa e Stato, la completa scristianizzazione dei luoghi pubblici (tribunali, scuole, e così via), l’esproprio totale degli edifici di culto e dei seminari, la proibizione dei voti e degli ordini religiosi, la trasformazione del clero in un corpo di funzionari statali e il “numero chiuso” per lo stesso clero, che doveva essere messicano di nascita, sancendo così l’espulsione dei missionari stranieri. Nel 1925 il Governo, mentre favorisce la diffusione delle missioni protestanti nordamericane, tenta anche – ma invano, a causa della reazione dei cattolici -, di dar vita a una Chiesa Nazionale separata da Roma. Le violenze poliziesche seguenti il tentativo di applicare la nuova disciplina antiecclesiastica, in vigore dal 31 luglio 1926, generano immediatamente la reazione del mondo cattolico, che dà vita a una Lega Nazionale di Difesa della Libertà Religiosa. L’episcopato messicano, in sintonia con la Segreteria di Stato vaticana, retta dal card. Pietro Gasparri (1852-1934), dopo diversi tentativi, falliti, di resistenza legale non violenta – scioperi, boicottaggi e petizioni popolari -, ritiene di reagire alla escalation del terrorismo governativo con un provvedimento inusitato e clamoroso: in segno di protesta sospende completamente l’esercizio del culto pubblico. L’atto, senz’altro legittimo, si rivela però imprudente perché non teneva conto della determinazione degli ambienti governativi di andare fino in fondo nell’affermare il proprio controllo sulla Chiesa – anche se prove in questo senso non erano mancate negli anni precedenti – e, soprattutto, sottovalutava l’impatto che la sospensione del culto avrebbe avuto sul vissuto popolare quotidiano, specialmente dei più umili. Infatti, la cultura del popolo, profondamente nutrita di Bibbia e di leggende religiose, caratterizzata da una forte tensione escatologica, vivacizzata da un’intensa e diffusa pratica devozionale, interpretava consuetamente gli avvenimenti all’interno di categorie che si potrebbero definire “mistiche” e “apocalittiche”. Anche la persecuzione di Calles viene dunque letta come l’abbattersi di un flagello biblico, e con altrettanto spirito apocalittico nasce nel popolo la convinzione che occorra reagire, come i fratelli Maccabei, impugnando le armi per ripristinare la giustizia violata.


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L’insurrezione-. Fin dai giorni immediatamente seguenti la sospensione del culto, in più di uno Stato, iniziano ad accendersi focolai di sollevazione. La Santa Sede si oppone alla rivolta armata, l’episcopato non la promuove né l’appoggia. Il mondo cattolico ufficiale – la Lega Nazionale di Difesa della Libertà Religiosa – persiste nell’azione di resistenza legale, che viene repressa con ancora maggiore asprezza: i federali non fanno distinzioni troppo sottili fra cristeros e circoli di Azione Cattolica, il che provoca innumerevoli martiri, particolarmente fra il clero. Il più noto è il sacerdote gesuita Miguel Agustín Pro (1891-1927), beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988. Dall’agosto del 1926 i focolai di rivolta diventano un incendio che divampa in quasi tutti gli Stati della federazione. Comunità intere si sollevano in massa. Clan familiari e confraternite laicali si danno alla macchia sulle montagne, da dove attaccano le truppe federali e le formazioni irregolari filogovernative, i cosiddetti “agraristi”. Lo scontro è fin da subito violentissimo. Contro i ribelli, che gli avversari disprezzano come esseri subumani, numerosi ma male armati e privi d’inquadramento militare, il Governo mobilita le truppe migliori dell’esercito nazionale, inclusa l’aviazione. Ciononostante, i cristeros, forti dell’appoggio popolare e praticando la guerriglia, infliggono gravi perdite ai federali e aumentano, passando a controllare e ad amministrare aree sempre più vaste del territorio nazionale, in particolare nella parte centro-meridionale del paese, negli Stati di Durango, Morelia, Jalisco, Zacatecas, Michoacan, Veracruz, Colima e Oaxaca. Un salto di qualità si ha quando, nel 1927, la guida dell’esercito cristero (che conta circa ventimila uomini) viene presa dall’ex generale federale Enrique Gorostieta Velarde (1891-1929), che aderisce inizialmente alla rivolta più per spirito anticonformista che per convinzione religiosa, ma che maturerà in consapevolezza, prima di essere ucciso a tradimento, in combattimento, il 2 giugno del 1929. Fra il 1927 e il 1928 gli insorti sono in grado di affrontare l’esercito federale in vere e proprie battaglie campali, con impiego dell’artiglieria e della cavalleria. Gli aiuti ai combattenti provengono dalla rete creata dalle famiglie, dalle confraternite e dalle organizzazioni di soccorso. In questa sanguinosa guerra clandestina si distinguono le brigate paramilitari femminili, intitolate a santa Giovanna d’Arco (1412-1431). Il clero (i vescovi, tranne due o tre, sono fuggiti all’estero e i sacerdoti vivono nella clandestinità) è pressoché assente fra i combattenti, che devono supplire alla mancanza dei sacramenti con la preghiera, soprattutto con la recita del rosario e dei salmi e con la devozione ai santi patroni. Alla fine del 1928 per i federali comincia a profilarsi il fantasma di una sconfitta sul campo: non riescono più a sostenere il peso della guerra civile su tanti fronti e, soprattutto, sembrano stanchi del terrore su vasta scala, che hanno scatenato contro il loro stesso popolo. Grandi battaglie hanno luogo agli inizi del 1929 (la maggiore è quella di Tepatitlán, nello Stato di Jalisco, il 19 aprile) e il movimento cristero, che conta circa cinquantamila combattenti, è molto vicino alla vittoria.


Gli “arreglos e la “segunda”-. Davanti alle crescenti difficoltà di domare l’insorgenza, il Governo fa balenare la possibilità di una tregua e i vertici cattolici, che non comprendono la guerra dei cristeros e sono sempre rimasti in spasmodica attesa di un segno di buona volontà da parte dell’avversario, raccolgono subito il segnale e accordi, del tutto informali, gli “Arreglos”, vengono frettolosamente sottoscritti il 22 giugno 1929, con l’attenta e determinante regìa della Segreteria di Stato vaticana, e il culto pubblico riprende. Per la Chiesa e per la popolazione questo costituisce un indubbio sollievo, ma per la sollevazione armata significa la fine. Venuto meno il generale consenso popolare, costretti a cedere le armi e a tornare ai propri villaggi, i cristeros si trovano immediatamente esposti alla vendetta, anche privata, dei federali, dal momento che gli “Arreglos” non contenevano nessuna garanzia a salvaguardia dei combattenti. Mentre la Chiesa non ricupera la sua libertà e, anzi, continua a essere perseguitata, la repressione nei confronti dei combattenti cristiani (soprattutto dei capi e dei quadri), per lo più contadini, continua ininterrottamente, almeno fino agli anni 1940. Così i cristeros, dopo una ripresa disperata della rivolta fra il 1934 e il 1938 – la cosiddetta “Segunda” -, quasi scompaiono, talora fisicamente, dalla storia del paese: restano ancora oggi, indomiti, alcuni piccoli nuclei di reduci che pubblicano un periodico, David. Nonostante l’oggettivo appeasement, fra Stato e Chiesa permangono strascichi latenti di quella guerra mai vinta e mai persa, fra i quali può forse venire inquadrata la “misteriosa” uccisione, il 24 maggio del 1993, del card. Juan Jésus Posadas Ocampo (1926-1993), arcivescovo di Guadalajara.


La guerra dei cristeros, gloriosa e sfortunata, costata dalle settanta alle ottantacinquemila vite umane, sembra essere considerata tanto dalla Chiesa quanto dallo Stato messicani un malaugurato incidente di percorso nel processo di “ralliement” fra Chiesa e mondo moderno, sì che ricerche storiche, come quella fondamentale dello storico e sociologo francese Jean Meyer, negli anni 1960, hanno incontrato non pochi ostacoli. In realtà, si tratta di una pagina di storia complessa e ancora non del tutto chiarita (a proposito della quale le animosità, soprattutto laicistiche, non si sono ancora placate), ma altamente significativa. Sul piano storico, siamo di fronte a un episodio dello scontro plurisecolare, nella sua versione armata e popolare, fra la Modernità, con i suoi processi di secolarizzazione delle culture e delle istituzioni politiche a fondamento religioso, e tali culture, pur residualmente di stampo sacrale tradizionale. Sul piano politico, la “lezione messicana” contribuisce all’elaborazione di una nuova strategia della Rivoluzione nei confronti dei cattolici, quella della “mano tesa”.

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questa NON è una testata giornalistica

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